Un’analisi delle criticità operative delle disposizioni di sicurezza aziendale per la prevenzione dei contagi da Coronavirus: la sanificazione, il distanziamento e i DPI.

In tutti questi anni di lavoro sul campo per ridurre i rischi per i lavoratori non mi ero trovato in una situazione come questa. Nulla di particolare ho trovato da scrivere sulla FASE 1; le aziende diligenti che hanno continuato la produzione (praticamente per obbligo) hanno fatto davvero il massimo possibile, specie quando sono riuscite a tenere in azienda solo un numero limitato di addetti davvero essenziali. Neanche mi sento, pur oggi, di contestare le scelte generali di questo governo e dei governi di altri paesi o delle organizzazioni sovra nazionali: l’inefficienza è drammatica ma i contenuti tecnici potranno, solo, essere giudicati dalla storia.

Ora stiamo entrando (come era inevitabile) nella FASE 2 che affronteremo con cautela ma sicuramente senza avere a disposizione alcun vaccino. Quindi in condizioni di salute generali migliori di quelle di inizio pandemia, ma non troppo diverse sotto i profili della prevenzione e della protezione.

Ci sono molte indicazioni già date sulle modalità di prevenzione del contagio nei luoghi di lavoro, che se perfettamente applicate dovrebbero prevenire la gran parte dei contagi. Indicazioni valide ma con due limiti.

  • La loro giusta generalità non può tener conto della infinita varietà dei casi concreti che nel mondo dell’industria sono davvero tantissimi e diversi fra loro.
  • Le indicazioni stesse hanno una chiara valenza migliorativa sotto il profilo della prevenzione, ma non sono purtroppo basate su dati certi riguardo al “comportamento” del virus prima e dopo l’infezione.

Bisogna riconoscere che sotto questo profilo il sentimento di urgenza ha spinto il mondo scientifico a diffondere quelle che normalmente sarebbero semplici ipotesi di lavoro, ma i profani come i datori di lavoro, gli RSPP, i medici competenti (almeno per certi aspetti), gli RLS e i singoli lavoratori (che sono gli esposti) non hanno nessuna capacità di filtrare ciò che leggono e sentono.

Dal punto di vista sociale credo che ci si pongano innanzi tre obiettivi:

  1. Dare al paese un modo di vivere sostenibile per diversi mesi considerando che prima di qualche mese i vaccini non saranno disponibili (e che chiudere tutto in attesa di tale evento ci riporterebbe ai tempi antecedenti la rivoluzione industriale).
  2. Contenere per quanto possibile il numero di contagiati (credo si possa fare una banale equazione: più persone che entrano in contatto = più contati, naturalmente a parità di tutte le altre condizioni al contorno).
  3. Diagnosticare il contagio di una persona il prima possibile per ridurre la diffusione del contagio ma anche per applicare l’opportuno protocollo di cura da “subito” anche per ridurre la percentuale di malati che devono ricorrere alla terapia intensiva; le disponibilità in terapia intensiva restano, pare, il principale punto debole del nostro sistema qualora si dovesse avere un incremento (prevedibile) dei malati.

Noi che ci occupiamo di sicurezza e salute sul lavoro, in special modo quando si parla di ambienti produttivi, ci concentriamo sul nostro specifico attendendo che la ricerca scientifica ci metta a disposizione vaccini, strumenti di protezione, strumenti diagnostici ecc. Per questo nel seguito vorrei dare alcuni spunti di riflessione su argomenti (dettagli) che a mio avviso sono difficili da mettere sotto controllo; conterei di fare una serie di due o tre articoli provando a sviscerare alcune questioni.

La solita questione delle responsabilità

Due parole solo per ricordare che, stante la genericità intrinseca delle indicazioni di sicurezza disponibili, non può esistere alcuna sorta di presunzione di conformità. In altri termini il datore resta unico decisore e responsabile in caso che qualcuno subisca danni dal virus contratto per causa di lavoro. E alle aziende si potrà applicare il D.lgs. 231/2001.

Quindi il datore di lavoro che non fosse in grado di tutelare adeguatamente la salute dei propri lavoratori in relazione ai rischi introdotti dal coronavirus non potrebbe richiedere alle maestranze la ripresa dell’attività; che poi la parola adeguatamente sia interpretabile è ovvio, ma in assenza di precedenti non possiamo immaginare quali strade vorranno imboccare la magistratura inquirente e quella giudicante.

Scopo di queste note

Non voglio fare l’ennesima pubblicazione generica, ma indicare quei piccoli punti che possono sfuggire andando a provocare situazioni fuori dal controllo richiesto dalle disposizioni legali e normative inerenti alla sicurezza dei lavoratori rispetto al possibile contagio da coronavirus.

Aggiungo che, per esperienza personale, ragionerò principalmente degli ambienti industriali, anche se alcune note forse avranno un’applicazione più ampia.

ARGOMENTO 0 – La sanificazione degli ambienti di lavoro

Ogni azienda normale effettua, prima del rientro delle maestranze dalle ferie, una approfondita pulita dei locali. Qui l’aggiunta è che tale attività deve portare alla sanificazione. Non ci vedo davvero problemi e sicuramente tutti hanno provveduto; vedo complessa una vera ripetizione della sanificazione nel tempo perché esisterà quasi in tutti i casi un disturbo reciproco con la produzione che probabilmente limiterà la completezza dell’intervento.

Naturalmente già qui esiste un margine di dubbio sull’efficacia della misura che ha una durata limitata, quindi la organizzazione del lavoro dovrebbe presupporre che l’ambiente non sia sanificato (con questo NON affermo che fare la sanificazione sia inutile). Come al solito ci mancano informazioni certe e quindi l’unica strada da percorrere è quella cautelativa.

ARGOMENTO 1 – Chi sono i lavoratori con “nuove limitazioni”? esiste un modo per gestirli?

Io ogni giorno guardo con puntigliosità i dati forniti dalla protezione civile. Se da giovane non mi fossi occupato anche di statistica credo che certe considerazioni non le tirerei fuori. La più evidente è che i danni del coronavirus colpiscono soprattutto le persone anziane: già la fascia 60/70 mostra dati molto preoccupanti. Quindi ci è stato detto di tenerne conto nel dosare i rientri dopo le aperture. Peccato che l’età non sia un fattore unico: non tutti i lavoratori sotto i 60 sono “immuni” alle conseguenze più gravi, normalmente per effetto di altre patologie cui sono stati o sono soggetti. Quindi, a mio avviso, è necessaria una revisione del protocollo sanitario e la eventuale emissione di nuove limitazioni, compito che spetta al medico competente che nello stato attuale delle conoscenze scientifiche disponibili si troverà sicuramente in difficoltà.

Un aspetto positivo è, invece, che il medico competente dovrebbe avere già tutte le informazioni necessarie sui lavoratori perché si tratta di risposte che usualmente si raccolgono in sede di anamnesi e che quindi presumibilmente sono nella cartella clinica del lavoratore.

ARGOMENTO 2 – Scaglionamento degli accessi gestione delle facilities (spogliatoi)

Iniziamo a ragionare sul grande tema delle misure di prevenzione del contagio: il distanziamento. Escludendo la questione trasporti (ovvero i contagi in itinere) su cui il datore di lavoro non può influire, il primo momento in cui il datore di lavoro “prende in carico” il lavoratore coincide con l’ingresso dello stesso in azienda. Semplificando esisterà un momento in cui il lavoratore timbrerà indicando così la sua presenza in azienda (non necessariamente l’inizio dell’attività lavorativa retribuita). Se per fare ciò si crea un assembramento è evidente che tutto quanto si dice sul distanziamento decade; per questo, e per altri motivi che vedremo nella seconda parte dell’articolo, si suggeriscono gli ingressi scaglionati (per orario) o, ben oltre, il passaggio a turno di lavoratori che avevano l’orario giornaliero. Sono ipotesi suggestive ma poco attuabili, specie con produzione a pieno ritmo; intendo che modificano radicalmente la organizzazione del lavoro e i costi della mano d’opera (pensiamo solo alla indennità di turno), e devono per giunta essere concordati con la RSU (questo come minimo chiede tempo).

Comunque, è evidente che qualcosa si debba fare e che le modifiche organizzative debbano essere ben progettate. Infatti, se evito gli assembramenti “davanti al tornello”, come gestisco la fase successiva degli spogliatoi? Poniamo di aderire all’idea dell’accesso a scaglioni, allora dovrò garantire che nel medesimo gruppo non ci siano due lavoratori i cui armadietti sono adiacenti (è solo un esempio). E le aziende che operano con squadre fisse di lavoro come le gestiamo? Facciamo entrare i membri di una squadra a scaglioni?

Vorrei fare un cenno all’altro problema simile: il consumo dei pasti. Le aziende non troppo piccole utilizzano la mensa (interna o di zona industriale); resto alla prima fattispecie e osservo che ridurre la capienza effettiva delle mense controllando gli accessi (ancora una volta scaglionandoli) è fattibile ma crea facilmente grossi problemi di organizzazione del lavoro.

Un sistema di tracciamento individuale associato al badge risolverebbe molti problemi ma andrebbe in conflitto con la privacy. Mentre affidare tutto a disposizioni organizzative richiederà un forte incremento della vigilanza, almeno nelle prime settimane.

ARGOMENTO 3 – I dispositivi di protezione

Ci hanno detto sino alla nausea che le mascherine non escludono, ma solo riducono, la probabilità di contagio delle persone esposte. Vorrei sommessamente ricordare quanto sia parimenti importante la protezione degli occhi.

In ogni caso noi che ci occupiamo di gestione dei rischi in azienda non possiamo avere dubbi sull’utilizzo di tali dispositivi, a meno che non introducano altri rischi più gravi, ma non mi pare che sia il nostro caso.

Quindi il datore di lavoro mette a disposizione, come suo dovere, i DPI precedentemente concordati col medico competente e ne cura la manutenzione e/o la sostituzione secondo necessità. Come per qualunque altro DPI, si direbbe, salvo che nel caso di specie i DPI stessi potrebbero essere infetti e andranno trattati con estrema cura.

Una nota: per i dipendenti sconsiglio vivamente i DPI portati da casa e gestiti dal lavoratore in totale autonomia.

Non ho fatto cenno ai guanti: niente da eccepire ma stento a comprenderne la reale efficacia in ambienti dove la permanenza è prolungata e a fronte di un contagio che non si “assorbe” dalla pelle. Forse mi sfugge qualcosa? La mia impressione è che una seria e ripetuta sterilizzazione delle mani sia la soluzione più pratica.

Una piccola conclusione

Dalle modeste osservazioni sopra, modeste ma realistiche, si vede chiaramente che le aziende si troveranno davanti uno sforzo organizzativo non indifferente; le scelte che dovranno adottare sconvolgeranno la attuale organizzazione del lavoro ed avranno, come conseguenza immediata, una diminuzione della efficienza a fronte di costi (anche del personale) pari o superiori (ricordiamoci l’indennità di turno).

E comunque non funzionerà tutto come vorremmo e, probabilmente, ci sarà una temporanea crescita dei contagi.

Infine: in questa prima parte non siamo ancora entrati in reparto!

Fonti:Puntosicuro.it