Inclusione del burnout come diagnosi medica nell’ICD-11: i media hanno sbagliato?
In queste settimane abbiamo visto titoli giornalistici così:
- Stress da lavoro, il burnout riconosciuto dall’Oms come una sindrome [ilSole24ore]
- Stress da lavoro, l’Oms riconosce ufficialmente il “burn out” [laRepubblica]
- Burnout, per l’Oms lo stress da lavoro è una sindrome. E si può diagnosticare [IlFattoQuotidiano]
- Stress, la sentenza dell’Oms sul burnout: i sintomi della sindrome di chi lavora troppo (o per niente) [LiberoQuotidiano]
- Oms: dall’eccesso di videogame al burnout, ecco le nuove malattie e dipendenze [Vanityfair]
- OMS: stress dal lavoro, il burnout è una sindrome [IlMessaggero]
- … e molti altri
Con questo tipo di divulgazione mediatica si ottengono alcuni effetti:
– si può pensare che il Burnout sia diventato una diagnosi medica secondo ICD-11, la classificazione internazionale delle malattie dell’OMS.
– si può generare anche una confusione con lo Stress Lavoro-Correlato.
L’equivoco è talmente evidente che è intervenuto lo stesso portavoce dell’agenzia per la salute, Christian Lindmeier, il quale ha precisato che il burnout è stato rubricato tra i “Fattori che influenzano la salute“. Quindi, non una patologia bensì un patogeno. Accolgo con benevolenza visto che si accoglie un fatto noto agli esperti del settore da molto tempo.
Innanzitutto, va spiegato che è proprio lo scopo dell’ICD elencare quei fattori che agiscono sulla salute e il conseguente approccio ai servizi sanitari. Il 25 maggio 2019 l’ICD è stato aggiornato durante l’assemblea mondiale della sanità, e la revisione sarà operativa dal 2022. L’ICD non annovera solo malattie, disturbi, lesioni ma ha anche uno sguardo ad ampio spettro. Lo scopo di questo strumento è fornire tendenze e statistiche per orientare i servizi e la spesa ad essi correlata. Coltivo la speranza che questa finalità sia compresa e declinata in azioni concrete.
Il burnout va visto come un fenomeno professionale, una condizione di disagio, che può avere anche gravi conseguenze, a chiara eziologia (cioè causa) esterna. Quindi si può dire, forzando il concetto, che è una psicopatologia del lavoro, che influenza il lavoratore. Insomma, è l’organizzazione da curare prima del lavoratore. Quando dico “curare” il lavoro intendo nello specifico un “prendersi cura” degli aspetti relativi alla produttività e al benessere organizzativo.
ICD-11 afferma che il burnout è: “una sindrome concettualizzata come risultato di stress cronico sul posto di lavoro che non è stato gestito con successo”. Io su questo punto ho una posizione chiara e critica perché la sindrome di burnout è solo parente, nemmeno troppo stretta, del fenomeno dello stress lavoro-correlato. Essa si contraddistingue per una serie di sintomi eterogenei (“torrente sintomatologico” secondo Matthias Burisch) che vanno dall’eccesso di zelo, al distacco, alla delusione fino alle fasi di somatizzazione.
La storia del burnout è nota, e intrecciata con quella dello stress, quindi la riassumo a sommi capi:
– Hans Selye negli anni ‘50 aveva parlato di sindrome generale di adattamento(oggi detto semplicemente stress) come un susseguirsi di 3 fasi: allarme-resistenza-esaurimento.
– Herbert Freudenberger nel 1974 introduce il termine burnout in riferimento a persone dinamiche, carismatiche e risolute che si impegnano fino in fondo in quello che fanno, lasciandosi coinvolgere anche intimamente.
– Christina Maslach nel 1981 ridefinisce il termine burnout in riferimento a persone che mancano di fiducia, hanno scarsa ambizione, hanno povertà di obiettivi e sono insicuri nel raggiungerli. Il modello della Maslach, ancora oggi molto considerato, prevede 3 sintomi:
- esaurimento emotivo; depersonalizzazione; ridotta realizzazione personale.
Già leggendo questi due autori vengono dubbi che si stia parlando della stessa cosa.
– Robert Karasek negli anni ‘90 propone l’idea dello stress lavoro-correlatosecondo una matrice che prevede una interpolazione fra richieste, controllo e supporto sociale.
Il fatto del tutto originale del burnout è che lo stato di affaticamento e frustrazione derivante da insoddisfazione lavorativa, è dovuta al mancato raggiungimento di obiettivi prefissati.
La dinamica, in sintesi, è questa:
- il soggetto “crede molto” nel proprio compito;
- fallisce, ovvero non centra l’obiettivo;
- “cortocircuita”, cade vittima di questo tipo particolare di stress.
Nel significato attuale del termine, il burnout è una condizione nella quale l’ambiente di lavoro risulta decisivo per la manifestazione dei sintomi. Caratteristica peculiare, che specifica questa sindrome rispetto alla sua prima definizione, è il particolare tipo di lavoratori che coinvolge: il settore delle professioni d’aiuto (medici, infermieri, operatori sociosanitari, psicologi, etc.). Questi ambienti lavorativi sono infatti permeati da alti livelli di coinvolgimento emotivo. Per dirla breve: bisogna curarsi di chi cura il prossimo.
L’assoluta unicità del burnout, rispetto allo stress lavorativo generico, sta nel presupposto che il soggetto percepisca la sensazione che il proprio miglioramento personale, la propria realizzazione, si concretizzi indirettamente, ovvero attraverso la “star meglio” degli altri.
Nel 1983 lo psicoanalista Harvey Fisher distingue burnout da wearout (logoramento)
- Burnout per autostressati che non dicono mai di no.
- Wearout per passivi stressati dall’esterno.
Poi è comparsa una nuova categoria (secondo Leider e altri):
- i Rustout (arrostiti), vittime atteggiate, che si fanno compatire.
Come si può notare negli anni si è ricamato sul tema, con la voglia di trovare nomi nei quali incasellare dinamiche psicologiche.
È a mio avviso con Matthias Burisch (1995) che il burnout prende la sua piega, perché egli intravede la sindrome in soggetti con alcune caratteristiche:
- Troppa attività o passività.
- Sensazioni di fiacchezza fino a dire “sono a terra”.
- Irrequietezza interiore tormentosa.
- Rapporti ambientali guasti.
Si estende la tipologia di aziende e di ruoli a rischio di burnout, quindi non solo ospedali e personale sanitario, ma anche ad esempio personale che lavora “per obiettivi” come i commerciali.
Il quadro complesso della sindrome può far trovare la persona in uno dei vari passaggi della cascata di reazioni possibili:
- Sintomi premonitori: iperattività o stanchezza cronica.
- Riduzione dell’impegno: verso i clienti (allievi, pazienti) e/o il prossimo e/o il lavoro.
- Reazioni emotive e colpevolizzazione: depressione o aggressività
- Declino: cognitivo e/o motivazionale.
- Appiattimento: emotivo, sociale, psichico.
- Reazione psicosomatica: debolezza immunitaria, tensione.
- Disperazione: negatività, perdita della speranza.
In pratica la persona percepisce una sensazione di “trappola”, bloccato nel raggiungere un risultato (irraggiungibile) e incapace di rinunciare o ridimensionare la meta, oppure prigioniero impantanato in una situazione dove il prezzo del lasciare la strada vecchia è alto come prendere la strada nuova.
Da un punto di vista clinico i sintomi possono essere facilmente oggetto di confusione, per esempio la fase depressiva del burnout può essere scambiata per depressione vera e propria. E in questo caso c’è un rischio di psichiatrizzare la persona.
Il burnout oggi ha a che fare con cause molto ampie:
- Sociali, culturali, ambientali, politiche: i cambiamenti socioculturali certamente influenzano la scomparsa di taluni disagi e la comparsa di altri.
- Tecnico-organizzative: oltre alle note variabili stressogene, sul burnout incidono la scarsità di sostegno, il disallineamento degli obiettivi, le ambiguità nei ruoli e nella leadership, la responsabilità sproporzionata all’autonomia.
- Psicologico-individuali: certamente il rischio burnout è più elevato su individui particolarmente dediti, idealisti, in generale più in difficoltà nella gestione delle proprie emozioni.
Dal punto di vista pratico, il rischio di burnout concerne il contesto occupazionale e richiede soluzioni primariamente organizzative. La patologizzazione del problema scaricherebbe il problema sulle persone, che in questo modo rischiano di essere indebitamente clinicizzate. È invece necessario adottare una corretta gestione delle risorse umane, fornendo loro adeguati strumenti di formazione, sostegno e consulenza.
In definitiva, un limite che intravedo in questa novità nell’ICD-11 è che riferisce alla definizione classica di Christina Maslach, che in realtà ha fatto un po’ il suo tempo. Questa notizia pertanto non sembra facilitare una vera presa di coscienza e di carico del problema. La codifica ICD-11 probabilmente fornirà dati e informazioni, e forse questo è l’aspetto più interessante di questa novità.
Personalmente sto lavorando al monitoraggio del rischio Burnout, con uno strumento completamente innovativo, in fase avanzata di validazione, dal nome B.R.A. (Burnout Risk Assessment). I primi risultati sono molto utili e indicativi, e ben accetti all’ATS che li recepisce.
Infine, mi venga concessa una battuta.
Qualcuno mi ha fatto notare che il nome da me scelto per il test BRA in inglese vuol dire “reggiseno”. E va bene, vorrà dire che se buttiamo lì l’occhio, per una volta, sarà per un motivo molto serio.
Fonti: Puntosicuro.it