Una sentenza della Corte di Cassazione si sofferma su un infortunio causato da un incendio in azienda e dalla mancanza di misure idonee a prevenire il pericolo. La non abnormità del comportamento e la non validità della delega di funzioni.
Non è la prima volta che la Corte di Cassazione arriva a pronunciarsi, come giudice di legittimità, sulle responsabilità relative alle conseguenze di un incendio.
Ricordiamo brevemente alcune brevi sentenze che hanno affrontato – al di là di quelle più conosciute e relative all’incendio nella camera iperbarica dell’Istituto Galeazzi o all’incendio alla linea numero 5 dell’acciaieria Thyssenkrupp di Torino – il tema della mancanza di misure idonee a prevenire o ridurre le conseguenze degli incendi:
- Sentenza n. 43500 del 21 settembre 2017;
- Sentenza n. 3313 del 23 gennaio 2017;
- Sentenza Cassazione Penale, Sez.III, 15 luglio 2016 n. 30143;
- Sentenza del 30 settembre 2015, n. 39363.
Una sentenza della Cassazione che ha affrontato il tema della carenza di idonee misure antincendio e della possibile abnormità della condotta dei lavoratori è la Sentenza n. 39745 del 27 settembre 2019 relativa al caso di un incendio in azienda durante l’operazione di svuotamento dei serbatoi dal gas propano liquido.
Con riferimento alla sentenza, l’articolo si sofferma su:
- La ricostruzione dell’evento e i ricorsi
- Le indicazioni della Corte di Cassazione
- I problemi della delega di funzioni e le conclusioni della Cassazione
La ricostruzione dell’evento e i ricorsi
Nella pronuncia della Cassazione si indica che la Corte di Appello di Roma ha confermato la sentenza di primo grado “con cui V.N. è stato condannato alla pena sospesa di mesi 2 di reclusione, con il beneficio della non menzione, per il reato di cui all’art. 590 cod.pen.”, ed è stato condannato per avere cagionato, in qualità di legale rappresentante della XXX s.r.l. e datore di lavoro di A.C.C., “lesioni gravi a quest’ultimo, consistenti in ustioni sul volto ed ai polsi, all’esito di un incendio verificatosi per la mancata adozione delle misure idonee a prevenire tale pericolo o, comunque, a mitigarne i rischi, tramite, ad esempio, l’utilizzo di attrezzature idonee”. Incendio che è stato determinato “dal contatto tra il gas delle bombole di GPL svuotate dal lavoratore ed un fuoco accesso nelle vicinanze”.
Il difensore dell’imputato ha “tempestivamente proposto ricorso per cassazione” denunciando:
- l’erronea applicazione della legge penale ed il vizio di motivazione della sentenza, che ha escluso la condotta abnorme del lavoratore, nonostante le fiamme divampate, da cui sono derivate le lesioni della vittima, non sia scaturito dal processo lavorativo, ma dalla condotta assolutamente imprevedibile dello stesso lavoratore, che ha acceso un fuoco sul luogo di lavoro, pur essendo segnalato da numerosi cartelli il rischio di incendio;
- l’inosservanza dell’art. 299 d.lgs. n. 81 del 2008, in quanto gli è stata attribuita una posizione di garanzia, nonostante la delega di funzioni conferita a G.G., che era l’amministratore di fatto della società”.
Le indicazioni della Corte di Cassazione
La Cassazione segnala in premessa che entrambi i motivi proposti dalla difesa sono “meramente ripetitivi delle censure di appello e non si confrontano né con le puntuali risposte del giudice dell’impugnazione, oltre a risultare non pertinenti rispetto alla ricostruzione dei fatti effettuata da giudici di merito”. E si ribadisce che in tema di ricorso per cassazione, “sono inammissibili i motivi che si limitano a riprodurre le censure dedotte in appello”.
A questo proposito si sottolinea che il primo motivo con cui la difesa insiste nell’invocare la condotta abnorme del lavoratore – “che avrebbe accesso il fuoco sul luogo di lavoro, nonostante il pericolo di incendio segnalato” – non tiene conto del contenuto della sentenza di primo grado, “che integra quella impugnata”.
Nella pronuncia del Tribunale “si legge, difatti, che ‘deve ritenersi irrilevante da chi sia stato acceso il fuoco, circostanza in effetti non provata attese le contrastanti deposizioni sul punto’, sicché la censura in esame si fonda su una ricostruzione dei fatti proposta dalla difesa, che non corrisponde all’accertamento dei giudici di merito”. E dunque il riferimento al fuoco acceso dal lavoratore “risulta improprio, tenuto conto dell’incertezza probatoria segnalata del giudice di primo grado sul punto”.
Inoltre sempre dalla sentenza di primo grado, “si evince che ‘premesso che il rischio incendio è intrinseco nella lavorazione di sostanze infiammabili, è emerso che occasionalmente venivano accesi fuochi all’interno di quei luoghi sia in base a quanto dichiarato dalla persona offesa sia per il riscontro effettuato da un terzo, il tecnico della Asl, che ha visto un braciere con ceneri e residui delle passate combustioni’.
E a ciò si aggiunge che la Corte di appello “ha osservato che ‘l’unica misura di prevenzione adottata dall’azienda fu quella di apporre alcuni cartelli che vietavano di accendere fuochi. Ora, se da un lato, è di tutta evidenza l’inidoneità di tale insufficiente misura antinfortunistica, dall’altro, la presenza di quei segnali dimostra inequivocabilmente che il rischio di verificazione dell’evento … era non solo prevedibile, ma era stato realmente previsto. Di talché l’imputato … aveva l’obbligo di impedirlo e per neutralizzarlo avrebbe dovuto semplicemente attenersi alle prescrizioni imposte dall’art. 46 del T.U. n. 81 del 2008 e controllare, personalmente o per mezzo di idoneo personale appositamente incaricato, che quel tipo di fochi (utilizzati dai lavoratori anche allo scopo di riscaldarsi nelle gelide giornate invernali) non venissero accesi’”.
Il ricorrente si è limitato ad insistere sull’abnormità della condotta del lavoratore e sulla verificazione dell’incendio al di fuori del ciclo lavorativo, “mentre, come sottolineato dai giudici di merito, da un lato, la fiamma è divampata durante l’operazione di svuotamento dei serbatoi dal gas propano liquido (operazione sicuramente riconducibile al ciclo produttivo) e, dall’altro, non vi è certezza che il fuoco sia stato accesso dal lavoratore e, comunque, i fuochi venivano occasionalmente accesi sul luogo di lavoro”. E del resto, “l’insicurezza del luogo di lavoro è stata determinata proprio dall’insufficienza di adeguate misure di prevenzione anti-incendio, ridotte ai meri cartelli informativi e prescrittivi, senza alcun presidio di controllo e senza la consegna al lavoratore di attrezzature adeguate alla sua tutela”.
Come ricordato anche in mole altre sentenze sul tema dell’abnormità del comportamento dei lavoratori, si indica che – secondo gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità, in tema di infortuni sul lavoro – “qualora l’evento sia riconducibile alla violazione di una molteplicità di disposizioni in materia di prevenzione e sicurezza del lavoro, il comportamento del lavoratore che abbia disapplicato elementari norme di sicurezza non può considerarsi eccentrico o esorbitante dall’area di rischio propria del titolare della posizione di garanzia in quanto l’inesistenza di qualsiasi forma di tutela determina un ampliamento della stessa sfera di rischio fino a ricomprendervi atti il cui prodursi dipende dall’inerzia del datore di lavoro (Sez. 4, n. 15174 del 13/12/2017 ud. – dep. 05/04/2018, Rv. 273247 – 01); in tema di prevenzione antinfortunistica, perché la condotta colposa del lavoratore possa ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l’evento lesivo, è necessario non tanto che essa sia imprevedibile, quanto, piuttosto, che sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia (Sez. 4, n. 15124 del 13/12/2016 ud. – dep. 27/03/2017, Rv. 269603 – 01)”.
I problemi della delega di funzioni e le conclusioni della Cassazione
Infine la Cassazione interviene anche sul secondo motivo relativo alla posizione di garanzia, “nonostante la delega di funzioni conferita a G.G., che era l’amministratore di fatto della società”.
Riguardo a questo secondo motivo, nel provvedimento impugnato “si legge che ‘la .. procura institoria notarile in data 16/9/2010, di cui pure si fa menzione nell’atto di appello, non presenta tutti i requisiti tipici della delega di funzioni ex art. 16 del d.lgs. n. 81 del 2008…poiché la stessa non riguardava un ambito ben definito, ma l’intera gestione aziendale’”. Relativamente a tale motivazione, peraltro conforme all’orientamento della giurisprudenza di legittimità – “secondo cui, in materia di infortuni sul lavoro, gli obblighi di prevenzione, assicurazione e sorveglianza gravanti sul datore di lavoro, possono essere trasferiti ad altri soggetti a condizione che il relativo atto di delega, ex art. 16 d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, riguardi un ambito ben definito e non l’intera gestione aziendale, sia espresso ed effettivo, non equivoco ed investa un soggetto qualificato per professionalità ed esperienza che sia dotato dei relativi poteri di organizzazione, gestione, controllo e spesa” – il ricorrente “non ha espresso alcuna critica”.
In ogni caso, continua la Cassazione, “in tema di infortuni sul lavoro, la delega di funzioni – ora disciplinata precipuamente dall’art. 16 T.U. sulla sicurezza – non esclude l’obbligo di vigilanza del datore di lavoro in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite (Sez. 4, n. 22837 del 21/04/2016 ud. – dep. 31/05/2016, Rv. 267319 – 01) – obbligo che pure è stato richiamato e ribadito nella sentenza impugnata”.
In conclusione la Cassazione “dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila in favore della Cassa delle ammende”.
Scarica la sentenza da cui è tratto l’articolo:
Fonti: Olympus.uniurb.it, Puntosicuro.it, Abruzzoconsulting.it