Prime considerazioni critiche sulla estensione della definizione al produttore in senso giuridico ad opera del D.L. 92/2015 e della legge 125/2015. Di Mara Chilosi e Andrea Martelli, avvocati.
Puntuali, con l’approssimarsi del periodo estivo, fra luglio e agosto 2015, il Governo prima e il Parlamento poi hanno messo mano alla normativa in materia di rifiuti intervenendo, fra le altre cose, sulla definizione di “produttore di rifiuti”. Questa riforma, le cui reali ricadute potranno essere valutate appieno soltanto dopo che si sarà prodotta una significativa casistica giurisprudenziale, ha fatto discutere sin da quando è apparsa e, a distanza di qualche mese, suscita tuttora un acceso dibattito.
Ma procediamo con ordine.
Il d.lgs. 152/2006 (noto anche come “Codice dell’ambiente”) contiene, nell’art. 183, una serie di definizioni il cui scopo è quello di delimitare il campo di applicazione della disciplina in materia di gestione dei rifiuti contenuta nella Parte Quarta del medesimo decreto e di circoscrivere il significato di alcune nozioni in essa utilizzate. Fra queste, assume una posizione indubbiamente centrale quella, contenuta nella lettera f) del comma 1, di “produttore di rifiuti”. È appena il caso di ricordare, infatti, che al produttore spettano precisi obblighi – primo fra tutti, la corretta classificazione del rifiuto [1] – e che anche su questa figura gravano, in forza del principio della “responsabilità condivisa” espresso dall’art. 178 e della disciplina contenuta nell’art. 188, importanti responsabilità nel caso in cui uno o più soggetti appartenenti alla cosiddetta “filiera” di gestione del rifiuto (trasportatori, intermediari, commercianti, recuperatori e smaltitori) non operino in piena conformità alla normativa di riferimento; responsabilità, è bene ricordarlo, che hanno natura penale e possono coinvolgere anche l’“ente” in base a quanto previsto dal d. lgs. 231/2001 [2].
La nozione contenuta nel citato art. 183 deriva dalla direttiva 2008/98/CE (“direttiva-quadro” in materia di rifiuti), il cui art. 3, par. 1, punto 5) definisce come “produttore di rifiuti” “la persona la cui attività produce rifiuti (produttore iniziale di rifiuti) o chiunque effettui operazioni di pretrattamento, miscelazione o altre operazioni che hanno modificato la natura o la composizione di detti rifiuti”.
Quest’ultima definizione era confluita nell’art. 183 ad opera del d. lgs. 205/2010 [3] – sostituendo quella, sostanzialmente analoga, contenuta sia nella versione originaria del d. lgs. 152/2006, sia, ancora prima, nell’art. 6, d. lgs. 22/1997 (noto come “Decreto Ronchi”) – e, fino alla riforma qui in commento, così recitava: è “produttore di rifiuti” il “soggetto la cui attività produce rifiuti (produttore iniziale) o chiunque effettui operazioni di pretrattamento, di miscelazione o altre operazioni che hanno modificato la natura o la composizione di detti rifiuti (nuovo produttore)”.
Nell’estate del 2015 il legislatore è intervenuto su questa definizione, ampliandola: la nuova nozione contenuta oggi nella lett. f) del comma 1 dell’art. 183, d. lgs. 152/2006 definisce, infatti, il “produttore di rifiuti” come “il soggetto la cui attività produce rifiuti e il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile detta produzione (produttore iniziale) o chiunque effettui operazioni di pretrattamento, di miscelazione o altre operazioni che hanno modificato la natura o la composizione di detti rifiuti (nuovo produttore)” (in grassetto le parole aggiunte dal decreto-legge 92/2015 e confermate definitivamente dalla legge 125/2015).
Non è questa la sede per addentrarsi in considerazioni sull’insolito iter legislativo che ha condotto alla modifica della definizione in questione [4]. Ci preme, piuttosto, concentrarci sulla “sostanza” e sui possibili effetti di una riforma le cui ragioni sono peraltro note: il Governo è stato, infatti, indotto ad intervenire “d’urgenza” (innanzitutto, con il decreto-legge 92/2015) su questa, come su altre definizioni in materia di gestione dei rifiuti (nello specifico, quelle di “raccolta” e “deposito temporaneo” contenute sempre nel comma 1 dell’art. 183, d. lgs. 152/2006) per consentire la continuità delle attività nel cantiere navale di Fincantieri di Monfalcone, sottoposte a sequestro preventivo [5].
Così facendo, però, il legislatore ha incautamente modificato una definizione la cui portata è, ovviamente, generale e riguarda i più diversi operatori economici e le più disparate attività produttive o di servizio, con ripercussioni al momento non ancora del tutto prevedibili.
La specificazione secondo cui è produttore dei rifiuti non soltanto “il soggetto la cui attività produce rifiuti”, ma anche (la nuova definizione, si noti, utilizza infatti la congiunzione “e” [i]) “il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile detta produzione” sembra comportare l’estensione di questa qualifica ad un soggetto diverso e ulteriore da colui il quale abbia materialmente prodotto i rifiuti.
Già in passato una parte della giurisprudenza aveva affermato che, in alcuni casi, debba essere considerato quale produttore dei rifiuti il soggetto nel cui interesse l’attività viene svolta (ad esempio, in quanto committente e/o proprietario del bene interessato dall’attività appaltata) e che questo soggetto sia titolare di una posizione di garanzia rispetto all’obbligo del produttoremateriale/detentore di gestire correttamente i rifiuti (Cass. pen., Sez. III, sentenze nn. 5006 del 1997 e 4957 del 2000).
Nella pratica, la questione si pone principalmente rispetto ai rifiuti prodotti nell’esecuzione di un contratto di appalto (si pensi, ad esempio, ai rifiuti derivanti dalla demolizione di parti di un edificio, o dallo smantellamento di un impianto industriale, ma la casistica è amplissima): l’appaltatore è, evidentemente, il produttore in senso “materiale” di questi rifiuti, mentre il committente può, tutt’al più, essere considerato soltanto quale produttore in senso “giuridico” degli stessi. Al problema di individuare, in questi casi, chi sia il soggetto “produttore” dei rifiuti, si era in precedenza cercato di fornire risposta sulla base degli impegni contrattualmente assunti dalle parti e, comunque, in ossequio alla necessaria applicazione del principio di effettività, delle concrete modalità di esecuzione dell’appalto. Ciò, in particolare, al fine di evitare una irragionevole “moltiplicazione” dei soggetti coinvolti nell’applicazione degli obblighi di carattere tecnico, organizzativo e documentale sanciti dalla disciplina in materia di gestione dei rifiuti (oggi contenuta, come detto, nella Parte Quarta del d. lgs. 152/2006) ed esposti, come tali, alle connesse responsabilità.
Non pareva dubitabile (nonostante, come detto, talune “oscillazioni” della giurisprudenza) che, a determinate condizioni (in particolare, assenza di qualsivoglia ingerenza, fosse essa contrattualmente prevista o esercitata di fatto, da parte del committente da un lato, genuinità dell’appalto e affidamento dello stesso a soggetti idonei dall’altro), i rischi collegati alla corretta gestione dei rifiuti prodotti in occasione dell’esecuzione del contratto di appalto potessero essere addossati esclusivamente in capo all’appaltatore; ciò anche e soprattutto in ragione della sfera di autonomia che l’ordinamento riconosce a questo soggetto rispetto al committente (in generale, si consideri l’art. 1655 del codice civile, secondo cui l’appaltatore deve realizzare l’opera o il servizio “con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio”). Questo ragionamento, peraltro, pareva assumere ancora maggiore consistenza in tutti i casi in cui soltanto l’appaltatore, e non anche il committente, possedesse competenze specialistiche e potesse vantare esperienze destinate – entrambe – ad avere rilievo anche ai fini della corretta individuazione, classificazione e gestione dei rifiuti generati nel corso dell’attività oggetto del contratto di appalto.
Non a caso, una parte della giurisprudenza aveva individuato, di regola, il produttore dei rifiuti nel soggetto che materialmente ne determina la formazione nell’esercizio della propria attività (Cass. pen., Sez. III, sentenze nn. 40618 del 2004 e 36963 del 2005).
Questa sembra essere, del resto, l’interpretazione più aderente al tenore letterale della definizione di “produttore di rifiuti” prevista dalla direttiva 2008/98/CE; ciononostante, già prima della riforma in commento pareva legittimo interpretare questa definizione in modo diverso e più elastico, adattandola, di volta in volta, al caso concreto, e tenendo conto di quanto pattuito fra le parti e delle circostanze di fatto. In altre parole, il produttore del rifiuto ben poteva essere individuato in colui che esercita effettivamente il potere di controllo e di disposizione sul rifiuto. Chiunque operi nel settore dei rifiuti sa bene, infatti, che, a fronte delle significative responsabilità che la non corretta gestione dei rifiuti comporta, vi può essere però uno specifico interesse del committente e dell’appaltatore a risultare quale “produttore” del rifiuto, in particolare in tutti i casi in cui esso sia suscettibile di valorizzazione economica (si pensi, ad esempio, al possibile recupero di metalli “nobili” dalle operazioni di smantellamento oppure di componenti pregiate da quelle di manutenzione).
La necessità di procedere ad una valutazione caso per caso era, peraltro, stata opportunamente riconosciuta di recente anche dalla stessa Corte di Cassazione penale (Sez. III, sentenza 26 marzo 2015, n. 12971, che in parte si rifà alla sentenza 16 marzo 2015, n. 11029), la quale, con riferimento ai rapporti fra committente e appaltatore, aveva affermato, da un lato, che “l’appaltatore, in ragione della natura del rapporto contrattuale, che lo vincola al compimento di un opera o alla prestazione di un servizio, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio è, di regola, il produttore del rifiuto” e che “su di lui gravano, quindi, i relativi oneri”, e, dall’altro, che possono però verificarsi “casi in cui, per la particolarità dell’obbligazione assunta o per la condotta del committente, concretatasi in ingerenza o controllo diretto sull’attività dell’appaltatore, detti oneri si estendono anche a tale ultimo soggetto”.
Proprio considerando il livello di elaborazione a cui era giunta la giurisprudenza interna, non si comprendono obiettivamente le ragioni per cui il legislatore italiano abbia sentito la necessità di intervenire sulla definizione di “produttore di rifiuti” discostandosi, con effetti inevitabilmente generali, dalla corrispondente definizione contenuta direttiva 2008/98/CE. Ciò con il rischio, oltretutto, che con il testuale ampliamento della nuova definizione di “produttore di rifiuti” voluto dal D.L. 92/2015 e confermato dalla legge 125/2015 si siano – più o meno consapevolmente – paradossalmente limitati i margini di manovra dell’interprete (e, ancora prima, di quegli operatori economici che avevano sinora applicato la definizione contenuta nel d. lgs. 152/2006 mediante una accorta e consapevole regolamentazione del “caso concreto”): in altre parole, la nuova definizione sembra introdurre un “automatismo” in forza del quale è sempre produttore dei rifiuti anche il soggetto a cui tale produzione sia imputabile soltanto in senso giuridico, con una generalizzata duplicazione ex lege dei soggetti chiamati a rivestire la predetta qualifica. Per quanto possa apparire irragionevole, non si può fare a meno di rilevare, infatti, come una tale interpretazione trovi conforto proprio nella formulazione letterale della norma.
Se letta in questi termini, la conseguenza più evidente che se ne avrebbe è l’inevitabile ridimensionamento del ruolo svolto dalla disciplina contrattuale concordemente stabilita dal committente e dall’appaltatore e dagli accorgimenti di natura organizzativa (ad esempio, una adeguata formazione degli addetti e l’implementazione di specifiche procedure operative) che possono essere introdotti al fine di ripartirsi i ruoli e di segregare opportunamente le connesse responsabilità. Dalla legge, infatti, deriverebbe oggi – quantomeno in via presuntiva, con conseguenti ricadute sotto il profilo probatorio – una sorta di “responsabilità solidale” fra produttore materiale e produttore giuridico del rifiuto (per restare all’esempio fatto, fra committente e appaltatore), i quali, entrambi, rispetto allo stesso rifiuto, si troverebbero a rivestire la qualifica di “produttore di rifiuti”, salvo dimostrare un diverso riparto di ruoli e responsabilità.
Non solo. Al di là del già segnalato ampliamento della platea dei soggetti esposta ai rischi di natura legale connessi alla (non corretta) gestione dei rifiuti, la riforma in esame, se portata a queste sue estreme conseguenze, farebbe altresì sorgere alcune evidenti problematiche sul piano operativo, derivanti dalla compresenza di due produttori (o addirittura, in caso di subappalto, di più di due) del medesimo rifiuto che devono condividerne la gestione (obblighi documentali, classificazione, selezione degli operatori autorizzati alle diverse fasi della “filiera”, ecc.), problematiche delle quali sarebbe stato opportuno che il legislatore tenesse conto in sede di stesura della norma. Cosa accade nel caso in cui questi due soggetti (produttore materiale e produttore giuridico) si trovino in disaccordo su una o più delle predetti operazioni? La norma, ovviamente, non lo stabilisce.
Si auspica, pertanto, che il legislatore torni quanto prima sui propri passi riportando la definizione di “produttore di rifiuti” contenuta nell’art. 183, d. lgs. 152/2006 nel solco di quella dettata dall’art. 3 della direttiva 2008/98/CE, e che comunque la giurisprudenza ne fornisca un’interpretazione ragionevole e in linea con il segnalato orientamento espresso dalla Corte di Cassazione nelle sentenze nn. 11029 e 12971 del 2015.
Nel frattempo, occorre che gli operatori prestino grande attenzione a questo tema e acquisiscano ancora maggiore consapevolezza in ordine agli obblighi ed alle responsabilità che gravano sul “produttore” dei rifiuti in quanto tale. In particolare, pare quanto mai opportuno che i principali aspetti connessi alla gestione dei rifiuti che si prevede siano prodotti nell’esecuzione di un appalto vengano disciplinati in modo chiaro ed espresso nel contratto (a cui le parti dovranno, poi, ovviamente, attenersi in modo rigoroso), in modo da affrontare preventivamente ogni possibile “divergenza di vedute” su circostanze essenziali (“chi fa cosa/come”) e prevenire così “zone grigie” che potrebbero risolversi in una improvvida assunzione di responsabilità rispetto a scelte od operazioni poste al di fuori della propria sfera di controllo.
Mara Chilosi e Andrea Martelli
avvocati
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[1] Sull’argomento sia consentito rinviare a M. CHILOSI (a cura di) 231 e Ambiente. Spunti operativi e casistica, Filodiritto editore, Bologna, 2013.
[2] E successivamente modificata dal decreto-legge 101/2013, convertito, con modificazioni, dalla legge 125/2013.
[3] Il Governo, infatti, vi ha provveduto dapprima con l’art. 1 del decreto-legge 4 luglio 2015, n. 92, e, in seguito, con l’art. 11 della legge 6 agosto 2015, n. 125, che ha abrogato il predetto art. 1 del decreto-legge 92/2015 e convertito in legge il decreto-legge 19 giugno 2015, n. 78. Il decreto-legge 92/2015, dunque, non è stato convertito in legge e il relativo iter parlamentare è stato definitivamente interrotto (come ufficialmente confermato dal comunicato del Ministero della Giustizia pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 204 del 3 settembre 2015). L’operazione così compiuta dal Parlamento desta, peraltro, notevoli dubbi di costituzionalità, ricordando la rigorosa posizione recentemente assunta dalla Corte costituzionale in analoghe vicende (si vedano le sentenze nn. 22/2012 e 32/2014).
È opportuno segnalare, infine, che l’art. 1 del decreto-legge 92/2015 è rimasto in vigore dal 4 luglio 2015 al 14 agosto 2015 e che l’art. 11, comma 16-bis, della legge 125/2015 (che ha definitivamente modificato l’art. 183, d. lgs. 152/2006) è in vigore dal 15 agosto 2015.
[4] A seguito della sentenza della Cassazione penale, Sez. III, 10 febbraio 2015, n. 5916 la Fincantieri aveva, infatti, deciso di interrompere l’attività dell’intero cantiere navale, con gravi ripercussioni di tipo produttivo ed occupazionale. La vicenda riguardava i rifiuti (es. ritagli di moquette, barattoli di vernice vuoti, ecc.) derivanti dalle lavorazioni eseguite sulle navi in costruzione da parte di imprese subappaltatrici, e l’accusa aveva contestato, fra le altre cose, che questi rifiuti venissero depositati in un luogo diverso da quello in cui erano stati prodotti, posto sotto il controllo di un soggetto che non ne era il produttore; ampliando la definizione di “produttore di rifiuti” al soggetto al quale la produzione del rifiuto sia giuridicamente ascrivibile, il legislatore ha così inteso ricomprendervi in modo inequivocabile anche Fincantieri, che, nel caso di specie, si configurava come appaltatore/subappaltante.
[5] Rispetto all’utilizzo della congiunzione “e” in un testo normativo, si noti infatti che, anche secondo quanto indicato dalla “Guida alla redazione dei testi normativi” di cui alla Circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 2 maggio 2001, “la congiunzione ‘e’ implica che, in una enumerazione di requisiti o presupposti o condizioni, tutti tali elementi devono concorrere perché l’effetto della disposizione si verifichi”. Qualora si voglia invece esprimere una “disgiuntiva relativa”, ossia la possibilità di scegliere una, l’altra o entrambe le soluzioni (e/o), devono essere utilizzate formule che con chiarezza esprimano il carattere “additivo” della elencazione: “ovvero”, “congiuntamente o disgiuntamente” e simili.
Fonti: Puntosicuro.it