Un intervento si sofferma sulla necessità dell’inserimento nel codice penale del reato di vessazioni sul lavoro. Nell’attuale ordinamento giuridico italiano la normativa atta a contrastare il mobbing è sufficiente e efficace?La Corte di Cassazione ha ormai elaborato da tempo il concetto di mobbing. Dalla sentenza n. 20230 del 25 settembre 2014 si può, ad esempio, ricavare una definizione che fa riferimento ad un eterogeneo fenomeno consistente in una serie di atti e comportamenti vessatori protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati di un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obbiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo. Una definizione “che sostanzialmente conferma i precedenti sul punto del giudice di legittimità”. E le caratteristiche del mobbing sono poi state ribadite nella sentenza n. 10037 del 15 maggio 2015 in cui la Corte di Cassazione ha ribadito che “l’onere della prova grava integralmente sul lavoratore che denunci di essere stato vittima di condotte vessatorie da parte del datore di lavoro. Onere probatorio duplice in quanto il lavoratore parte offesa dovrà dare prova piena e rigorosa sia del fatto che i comportamenti subiti abbiano natura illecita sia della quantificazione del danno subito”. E un’altra sentenza della Sezione Lavoro della cassazione (sentenza n. 2920 del 15 febbraio 2016) indica che per poter “ricorrere alla tutela giudiziaria il lavoratore deve dimostrare l’intento persecutorio che non deve assistere le singole condotte poste in essere a suo danno ma deve ricomprenderle in un unico disegno vessatorio”. E sulla quantificazione del pregiudizio subito a seguito di mobbing, è intervenuta la Sez. I del Tribunale di Nocera Inferiore (sentenza 7 maggio 2014) che ha rilevato come il danno morale non scatta in re ipsa come danno evento ma è comunque un danno-conseguenza che deve essere provato dal richiedente.
A ricordare in questi termini alcuni aspetti giuridici del fenomeno del mobbing e a formulare delle interessanti proposte è un intervento al convegno “ Stress, molestie lavorative e organizzazione del lavoro: aspetti preventivi, clinici e normativo-giuridici. Le soluzioni possibili”, organizzato da AIBEL, ATS Milano e SNOP, che si è tenuto a Milano il 7 giugno 2016.
In “Necessità dell’inserimento nel codice penale del reato di vessazioni sul lavoro”, a cura dell’Avv. Alessandro Rombolà (Medicina Democratica – Sez. Pietro Mirabelli Firenze – Associazione Italiana Benessere e Lavoro), ci si sofferma in particolare sull’opportunità che “tutte le condotte illecite che – forse con eccessiva semplificazione – sono comunemente conosciute come mobbing, debbano o meno essere oggetto dell’attenzione del legislatore penale”.
Da questo punto di vista il relatore parte da una profonda convinzione.
Ritiene infatti necessario “un intervento legislativo che dia disciplina unitaria e rigorosa completa a tale problema. Infatti sino ad oggi l’impressione degli addetti ai lavori è che il mobbing sia un concetto elaborato dalla giurisprudenza ma, colpevolmente, poco considerato dal legislatore”.
Manca in realtà una precisa definizione da parte del legislatore il quale prende in considerazione e stigmatizza le condotte relative al mobbing – anche omissive come spesso si verifica nel cosiddetto ‘mobbing orizzontale’ “dove il datore di lavoro, per disinteresse o per un preciso intento escludente, evita di intervenire per porre fine a comportamenti mobbizzanti posti in essere dai colleghi di lavoro della vittima” – ma poi “non ne trae le dovute conseguenze sanzionatorie”.
Lo stesso Decreto Legislativo 81/2008 prende in considerazione le patologie collegate allo stress lavoro-correlato ma senza “dare indicazioni valide per la soluzione concreta di tali problematiche”. Ed è lecito chiedersi: “nell’attuale ordinamento giuridico italiano la normativa atta a contrastare il mobbing è da ritenersi sufficiente e, soprattutto, efficace”?
Secondo il relatore la risposta non può essere che negativa.
Il relatore motiva la sua convinzione anche soffermandosi sulle due strade “sostanziali e processuali per tutelare i lavoratori che siano stati vittima di mobbing: quella giuslavoristica- previdenziale e quella penale”. E rileva che l’opinione prevalente della giurisprudenza è quella di “vedere con sospetto e talvolta con malcelato fastidio la tutela penale”.
Rimandando i nostri lettori alla lettura integrale dell’intervento, che riporta integralmente alcuni utili riflessioni su questi aspetti, sottolineiamo che secondo il relatore non è solo “opportuno ma anche necessario che il legislatore affronti – nel quadro di una più complessa disciplina unitaria del fenomeno – l’opportunità (…) di introdurre nel nostro ordinamento il reato specifico di mobbing”.
La carenza della legislazione sul punto comporta due conseguenze negative:
– “l’assoluta inadeguatezza nella doverosa repressione dei fenomeni di mobbing;
– l’assoluta incertezza sull’esito delle denunce penali che troppo spesso dipende dalla sensibilità (ed anche conoscenza del fenomeno) da parte dell’inquirente cui viene assegnata l’istruttoria penale”.
E si ricorda come in altri casi “la soluzione di certe condotte gravemente illecite” – viene fatto l’esempio dello stalking – “ha trovato valido ausilio soltanto con e dopo l’introduzione nell’ordinamento penale di norme repressive ad hoc”. Ed allora si deve – continua il relatore – “uscire dall’ipocrisia: o si ritiene che il mobbing sia un fatto gravissimo (come in effetti lo è) ed allora si mette mano a provvedimenti efficaci per combatterlo; oppure si continua nell’incertezza attuale con palliativi come quello di volere forzatamente includere il mobbing in già esistenti figure di reato, con tutti i problemi che abbiamo visto in precedenza”.
Dopo aver presentato alcune possibili critiche alla soluzione dell’introduzione del reato specifico di mobbing (e alcuni dubbi sull’utilità di altre soluzioni come l’istituzione di collegi arbitrali o di conciliazione oppure l’adozione da parte delle aziende di codici etici o comportamentali), il relatore esamina poi un altro aspetto che rende a suo parere auspicabile l’introduzione del reato di mobbing e la conseguente tutela in ambito penale.
Si ricorda quelli che, sul piano processuale civile, sono “i principali ostacoli alla tutela del lavoratore persona offesa:
– la difficoltà di fornire prove esaustive della condotta illecita di cui è rimasto vittima sul luogo di lavoro. Sul punto, come osservato in precedenza, la giurisprudenza della Cassazione è univoca e costante: l’onere della piena prova necessaria per arrivare ad una sentenza favorevole, ricade interamente sul lavoratore: ciò comporta difficoltà spesso insormontabili per arrivare ad una sentenza di condanna del mobber”;
– “la mancata previsione delle malattie conseguenti ad azioni mobbizzanti nelle tabelle INAIL. Non essendo malattie tabellate, la prova talvolta (anzi spesso) è pressoché impossibile”;
– “la difficoltà di trovare magistrati e CTU medico-legali con una competenza specifica su tali illeciti e patologie”.
Invece in sede penale, la questione cambia in quanto “il PM nell’esercizio dell’azione penale, ha poteri ispettivi ed inquisitori preclusi al lavoratore – parte offesa. Ecco perché la repressione penale di queste condotte illecite sarebbe infinitamente più efficace e quindi è auspicabile”.
In conclusione il relatore segnala che l’Associazione Italiana Benessere e Lavoro (A.I.B.e L.) sta “conducendo una lotta per l’introduzione del reato di condotte vessatorie sul luogo di lavoro”, anche attraverso la stesura di uno specifico disegno di legge.
“ Necessità dell’inserimento nel codice penale del reato di vessazioni sul lavoro”, a cura dell’Avv. Alessandro Rombolà (Medicina Democratica – Sportello Disagio Lavorativo Medicina Democratica – Associazione Italiana Benessere e Lavoro), intervento al convegno “Stress, molestie lavorative e organizzazione del lavoro: aspetti preventivi, clinici e normativo-giuridici. Le soluzioni possibili”
Fonti: Puntosicuro.it