Nel concetto di esorbitanza del comportamento del lavoratore infortunato vanno incluse l’inosservanza di norme antinfortunistiche e una condotta contraria a precise direttive organizzative ricevute. Di Gerardo Porreca.
In questa sentenza la Corte di Cassazione ha focalizzata la propria attenzione sui limiti di responsabilità del datore di lavoro e su quando il comportamento del lavoratore che ha subito un infortunio costituisce una evidente causa interruttiva del nesso causale fra una omissione del datore di lavoro stesso e l’evento lesivo, argomento sul quale per la verità la suprema Corte non sembra aver trovato una linea comune, univoca e condivisa. Pur se il criterio idoneo a discriminare il comportamento anomalo del lavoratore da quello che non lo è, ha sostenuto nella sentenza stessa la Corte suprema, è basato sullo svolgimento delle proprie mansioni nel concetto di esorbitanza vanno incluse anche l’inosservanza a precise norme antinfortunistiche o la condotta del lavoratore contraria a precise direttive organizzative ricevute sempre a condizione che tale comportamento non risulti determinato da carenze o inidoneità delle norme di sicurezza adottate dal datore di lavoro.
Il fatto e il ricorso in Cassazione
La Corte di Appello ha riformato, con esclusivo riferimento alla concessione delle circostanze attenuanti generiche e rideterminazione della pena in quindici giorni di reclusione, la pronuncia di condanna emessa dal Tribunale nei confronti di un datore di lavoro, imputato del reato previsto dall’art. 590 cod. pen. in relazione all’art. 583 c.p., comma 1, n. 1 perché, nella sua qualità, per colpa consistita in imprudenza, negligenza, imperizia ed inosservanza delle norme dettate per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, in particolare per violazione dell’art. 68 del D.P.R. 27/4/1955 n. 547, omettendo di proteggere o comunque di dotare di idoneo dispositivo di sicurezza gli organi lavoratori delle macchine e le relative zone di operazione, ha cagionato ad una dipendente, con la qualifica di operaia addetta al reparto frigo, lesioni personali guaribili in 92 giorni. L’infortunio era accaduto mentre la lavoratrice svolgeva mansioni di addetta ad una foratrice allorquando questa si è inceppata a causa di una basetta facente parte del macchinario che si era incastrata nei meccanismi di trazione. In particolare la lavoratrice, nonostante fosse a conoscenza della procedura idonea a sbloccare la foratrice in sicurezza, ha preso un cacciavite ed ha infilato la mano, protetta dal guanto, in un piccolo varco presente nel recinto di protezione in plexiglas posto a copertura degli ingranaggi del macchinario. Una volta sbloccato il meccanismo, la foratrice si è riattivata agganciando il guanto di protezione e trascinando la mano della lavoratrice stessa tra gli ingranaggi, con conseguente frattura esposta del terzo dito della mano destra.
Il datore di lavoro ha ricorso per cassazione censurando la decisione impugnata sostenendo che la Corte di Appello avesse desunto la sua colpa dalla violazione di una generica norma cautelare, ossia dall’aver omesso di adottare la cautela di impedire l’avvicinamento della lavoratrice alla zona di operazione della macchina, mentre l’imputazione si riferiva alla specifica norma cautelare dettata dall’art. 68 del D.P.R. n. 547/1955 che prevede che “Gli organi lavoratori delle macchine e le relative zone di operazione, quando possono costituire un pericolo per i lavoratori, devono, per quanto possibile, essere protetti o segregati oppure provvisti di dispositivo di sicurezza”. Secondo il ricorrente, quindi, il giudice avrebbe dovuto accertare in concreto l’avvenuta violazione della più generica regola cautelare così identificata ed avrebbe dovuto altresì motivare l’insufficienza della barriera protettiva di plexiglas posta attorno alla macchina, tanto sotto il profilo dell’inidoneità della decisione aziendale di posizionare tale barriera alla distanza di almeno 85 centimetri dagli ingranaggi quanto sotto il profilo del posizionamento del varco di 10 centimetri ad un’altezza tale da rendere necessaria una condotta positiva del lavoratore finalizzata al superamento dell’ostacolo costituito dalla posizione in quota della predetta fessura.
Nel ricorso l’imputato ha riscontrato, altresì, una violazione della legge penale sostanziale con riferimento ai principi che regolano l’individuazione della violazione di una regola cautelare. Premesso che l’infortunio era stato causato da una deliberata decisione della lavoratrice, munitasi di un cacciavite ed arrampicatasi sui caricatori della macchina per accedere per il tramite di un varco di dieci centimetri alla zona meccanica della macchina, il ricorrente ha sostenuto l’erroneità della decisione di ritenere penalmente rilevante la condotta del datore di lavoro per aver tratto dall’art. 2087 cod. civ. il suo dovere di garantire la sicurezza assoluta dei lavoratori, per aver trascurato che la presenza dei varco di dieci centimetri costituiva una condizione essenziale per il funzionale esercizio della macchina e che la segregazione richiesta dall’art. 68 del D.P.R. n. 547/1955 è imposta “per quanto possibile”, per avere altresì omesso di considerare il legittimo affidamento dell’imputato nel comportamento della dipendente conforme alle direttive ricevute, desumibile dall’obbligo diffuso che grava su tutti i soggetti dell’organizzazione aziendale, ivi inclusi i lavoratori a norma dell’art. 20 del D. Lgs. 9/4/2008 n. 81, a carico dei quali sono previste sanzioni penali in caso di inosservanza delle direttive comportamentali derivanti da soggetti apicali, per avere ritenuto che la condotta della lavoratrice rientrasse nel segmento lavorativo attribuitole nonostante si trattasse di condotta difforme dalle direttive di organizzazione ricevute ed esorbitante dalle mansioni attribuitele e per avere infine omesso di applicare il principio secondo il quale il vigente sistema penale non assicura la sua protezione a chi, nella piena consapevolezza del pericolo, si espone per propria decisione ad esso.
Le decisioni della Corte di Cassazione
Il ricorso è stato ritenuto fondato dalla Corte di Cassazione. E’ risultata pacifica e condivisa, ha messo in evidenza la Corte suprema, la circostanza che la lavoratrice fosse stata adeguatamente informata sulle procedure che, in assoluta sicurezza e senza rischio alcuno per la sua incolumità, le avrebbero consentito di fronteggiare la situazione da cui si è originato l’infortunio. La stessa, infatti, per accedere alla macchina avrebbe dovuto aprire la porta di sicurezza, dotata di dispositivo di blocco del funzionamento all’apertura, ovvero chiamare l’addetto alla manutenzione. Nella sentenza inoltre, ha fatto osservare la Sez. IV, è stato riportato quanto dalla stessa dichiarato e cioè che aveva già operato in precedenti analoghe occasioni nel rispetto delle prescrizioni di sicurezza.
E’ risultata pacifica, inoltre, la circostanza che il varco nel quale la lavoratrice ha infilato il braccio fosse funzionale al processo produttivo e che gli organi lavoratori della macchina fossero integralmente protetti e segregati, fatta eccezione per il suindicato varco, da un recinto di protezione. Sulla base di tali premesse la Corte territoriale, a differenza del Tribunale, non aveva ravvisata la violazione della specifica regola cautelare contestata, ossia quella di cui all’art. 68 del D.P.R. n. 547/1955 ma ha confermata la pronuncia di condanna sussumendo la violazione nella generale norma prevenzionale dettata dall’art. 2087 cod. civ. a mente della quale l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
In merito al nesso di causalità, ha fatto notare altresì la Sez. IV, la Corte territoriale aveva escluso che il comportamento della lavoratrice avesse avuto effetto interruttivo sul presupposto che l’infortunio era riconducibile all’area di rischio propria della lavorazione svolta, essendo la dipendente addetta al controllo della macchina foratrice ed essendosi l’infortunio verificato all’interno del ciclo produttivo, e che la lavoratrice aveva compiuto un’operazione rientrante nel segmento di lavoro attribuitole. Secondo la stessa Corte territoriale quindi il comportamento della lavoratrice non è consistita in qualcosa di radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e pertanto prevedibili scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro, ma è stato solo un gesto imprudente compiuto nell’esercizio delle proprie mansioni lavorative.
La Corte di Cassazione al fine di valutare la legittimità delle argomentazioni svolte in proposito dai giudici di merito ha ritenuto opportuno richiamare in sintesi alcuni principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità in tema di condotta cosiddetta abnorme del lavoratore, da valutare in applicazione dell’art. 41 c.p., comma 2, a norma del quale il nesso eziologico può essere interrotto da una causa sopravvenuta che si presenti come atipica, estranea alle normali e prevedibili linee di sviluppo della serie causale attribuibile all’agente e costituisca, quindi, un fattore eccezionale. La Corte di Cassazione ha quindi messo in evidenza che nelle decisioni assunte precedentemente in merito dalla stessa Corte “se da un lato, è stato posto l’accento sulle mansioni del lavoratore, quale criterio idoneo a discriminare il comportamento anomalo da quello che non lo è, nel concetto di esorbitanza si è ritenuto di includere anche l’inosservanza di precise norme antinfortunistiche, ovvero la condotta del lavoratore contraria a precise direttive organizzative ricevute, a condizione che l’infortunio non risulti determinato da assenza o inidoneità delle misure di sicurezza adottate dal datore di lavoro”.
“In sintesi”, ha così proseguito la Sez. IV, “si può cogliere nella giurisprudenza di legittimità la tendenza a considerare interruttiva del nesso di condizionamento la condotta abnorme del lavoratore non solo quando essa si collochi in qualche modo al di fuori dell’area di rischio definita dalla lavorazione in corso ma anche quando, pur collocandosi nell’area di rischio, sia esorbitante dalle precise direttive ricevute ed, in sostanza, consapevolmente idonea a neutralizzare i presidi antinfortunistici posti in essere dal datore di lavoro; quest’ultimo, dal canto suo, deve aver previsto il rischio ed adottato le misure prevenzionistiche esigibili in relazione alle particolarità del lavoro”.
Dai principi così richiamati, ha così concluso la suprema Corte, si può, dunque, sviluppare il seguente corollario: “si deve ritenere abnorme o, comunque, eccezionale ed, in quanto tale, idoneo ad interrompere il nesso di causa tra la condotta datoriale e l’evento il comportamento del lavoratore esorbitante dalle precise direttive impartitegli, così qualificabile qualora, per la serie di operazioni messe in atto al fine di superare le barriere poste a presidio della sua sicurezza, riveli la piena consapevolezza di violare le prescrizioni datoriali ponendo inoltre in essere, come nel caso in esame, una condotta ex se fonte di pericolo (nella concreta fattispecie, la lavoratrice si era addirittura “arrampicata” sui bidoni di alimentazione del macchinario allungandosi per raggiungere in quota una piccola feritoia di 10 centimetri in cu infilare una mano con la quale impugnava un cacciavite, e ciò in assenza di qualsiasi esigenza tecnica che rendesse necessaria una così azzardata ed anomala e dunque imprevedibile manovra)”.
Alla luce in definitiva dei principi sopra indicati la Corte di Cassazione ha ritenuta quindi la pronuncia impugnata viziata dalla violazione dell’art. 41 c.p., comma 2, laddove si è ritenuto che il comportamento della lavoratrice non fosse qualificabile come causa sopravvenuta sufficiente a determinare l’evento, nonostante fosse stato accertato che il datore di lavoro avesse adottato le misure prevenzionistiche funzionali a segregare gli organi lavoratori della macchina ed avesse adeguatamente informato e formato la lavoratrice in merito ai comportamenti da adottare qualora si fosse verificato l’inceppamento del macchinario al quale era addetta e nonostante fosse stato accertato che la lavoratrice avesse violato le direttive ricevute mettendo in atto una serie di operazioni (prendere un cacciavite, raggiungere allungandosi il varco di dieci centimetri presente nel recinto segregatore ed infilarvi il braccio) rivelatrici della piena consapevolezza di violare tali direttive. Pertanto la Corte di Cassazione ha annullata la sentenza impugnata senza rinvio “perché le pacifiche acquisizioni istruttorie enunciate nel provvedimento non consentivano di pervenire alla condanna, in presenza di una evidente causa interruttiva del nesso di causalità tra la condotta dell’imputato e l’evento infortunistico ascrittogli”.
Fonti:Puntosicuro.it, Olympus.uniurb.it