Secondo l’Oms, che ha sondato le emozioni dei cittadini europei, il 60% di essi soffre di pandemic fatigue: cos’è e cosa si può fare per contrastarla?

La sensazione naturale di stanchezza e sfinimento dovuta a uno stato di crisi prolungato viene definita “pandemic fatigue” e costituisce una reazione, assolutamente naturale, di fronte a una situazione di cui non si intravede la fine.  All’inizio di una situazione critica infatti la maggior parte delle persone è in grado di attivare un sistema di adattamento mentale e fisico per la sopravvivenza in situazioni di forte stress,  ma, quando la situazione si protrae nel tempo e richiede misure che modificano profondamente le abituali condizioni di vita e di lavoro, frequentemente subentra un malessere profondo derivante dalla sensazione di perdita di controllo sulla propria vita, di deprivazione e di costrizione.

Secondo l’Oms, che ha sondato le emozioni dei cittadini europei, il 60% di essi soffre di pandemic fatigue; altre fonti evidenziano che non sono esenti da questo problema neppure coloro che abitano in altri continenti.

La virologa Ilaria Capua in un’intervista al Corriere della Sera ha dichiarato che si è  di fronte a  casi di  pandemic fatigue  “ quando i pazienti, ma anche le strutture sanitarie e i decisori politici, si immobilizzano”, e ha indicato come antidoto a essa il  “concentrarsi sulle questioni davvero urgenti e necessarie e lasciare un po’ perdere il resto”.

Seguire questo suggerimento, diretto a categorie specifiche, gioverebbe però anche, in modo più generico, a molti, in particolare alle le donne che, secondo uno studio commissionato dal Dipartimento per i diritti e gli affari costituzionali del Parlamento europeo sugli “impatti di genere della crisi Covid-19”, nel breve e medio periodo sono state maggiormente sottoposte agli effetti socioeconomici del virus. Ciò non perché il virus attacchi maggiormente le donne (anzi, sembra che esse siano lievemente meno colpite dal contagio), ma a causa di “interventi di sanità pubblica e politiche introdotte per arginare la pandemia” che pesano maggiormente su di esse. Lo studio constata che “le donne hanno assorbito la maggior parte del lavoro di cura informale e non retribuito durante la pandemia”, il che le ha costrette a una revisione drastica della propria organizzazione di vita e di lavoro e, spesso, anche a ricorrere a congedi non retribuiti o a riduzioni dell’orario di lavoro. Sul piano economico ciò ha inciso soprattutto sulle famiglie monoparentali (più frequentemente costituite da donne) e potrebbe avere un impatto anche maggiore per il futuro, a causa della prevista recessione occupazionale. A gravare ancora di più sulla condizione delle donne ha contribuito anche l’aumento della violenza domestica e dei conflitti di prossimità e la crisi sanitaria che ha avuto pesanti ripercussioni sulle consuete prassi di cura pre e post-natale, lasciando le donne più sole nei momenti del parto e post-parto.

Questi fattori di disagio vanno ad aggravare quelli derivanti dalla pandemic fatigue ed è necessario contrastarli. 

A fare ciò può contribuire l’erogazione di percorsi formativi specifici che, organicamente ricompresi in quelli volti alla prevenzione dello stress lavoro correlato o finalizzati a ottimizzare lo svolgimento dello smart working, sostengano in modo mirato le donne, rafforzandole e aiutandole ad aumentare autostima e autoefficacia.

Lo smart working in particolare richiede di coltivare la capacità di gestire le relazioni da remoto e di riorganizzare i propri compiti, ma anche di ottimizzare il tempo secondo una modalità agile e flessibile e di essere efficienti, preservando però se stesse ed evitando di farsi soverchiare da esigenze dicotomiche di cura e lavoro.

Per farlo è necessario essere in grado di attivare un nuovo modello di resilienza, basato sulla fiducia in sè e di ricercare soluzioni innovative e creative.

Detti percorsi formativi dovrebbero essere finalizzati ad aiutare le donne a superare la perdurante situazione di crisi e a rivedere secondo diversi presupposti e dinamiche inedite l’organizzazione del lavoro sia a casa che in ufficio, armonizzando i bisogni dei diversi soggetti interessati e conservando o ampliando la propria capacità di concentrazione e focalizzazione, senza dispersioni energetiche.  

Tutto questo, però, non basta: potrebbe risultare necessario affiancare agli interventi formativi erogati dall’azienda percorsi personali. L’importanza di essi è sottolineata dalla dott. Rossella Cardinale, formatrice, consulente HR, soft-skills trainer e facilitatore che, partendo dalla sua esperienza personale e dai molti corsi proposti e sperimentati, ha verificato che è necessario imparare a prendere consapevolezza del proprio stato emotivo e delle proprie sensazioni. L’intelligenza emotiva – dice – va intesa come un insieme di competenze che aiuta a riconoscere le proprie emozioni, a leggere correttamente il contesto, a trovare soluzioni efficaci e sostenibili e a comunicare correttamente con gli altri.

Fonti: Puntosicuro.it