Affrontare il rischio stress con un linguaggio semplice, ironico e diretto. Un capitolo un po’ giuridico e molto psicologico di un testo sullo stress lavoro correlato: l’incongruenza della normativa e l’ esperienza di un lavoratore fragile.
Continuiamo la pubblicazione, in più puntate, di un testo sullo stress lavoro correlato o, meglio, sul “mal-essere” nel mondo del lavoro. Un testo curato dallo psicologo del lavoro Andrea Cirincione e dal titolo “Lavori o Scleri?! Teoria e Pratica del mal-essere per scelta” che presenta il tema con un linguaggio semplice, ironico e diretto, arricchendosi delle esperienze di lavoro in organizzazioni pubbliche e private di ogni tipo e dimensione.
Il primo capitolo – pubblicato la scorsa settimana – ci ha portato, anche attraverso aneddoti curiosi, alla scoperta della sindrome generale di adattamento e alla definizione di stress.
Il secondo capitolo riparte dalla definizione che emerge dall’ Accordo Europeo del 2004 (“stato… che consegue dal fatto che le persone non si sentono in grado di superare i gap rispetto alle richieste o alle attese nei loro confronti”) e inizia riflettendo su cosa voglia dire “non sentirsi in grado”…
Capilo 2- Qualche incongruenza e una storia di fragilità
Capitolo un po’ giuridico e molto psicologico.
Stiamo riflettendo su cosa voglia dire “non sentirsi in grado”.
Ci tengo a porre l’accento sulla peculiarità del concetto: siamo nel campo ben delineato dal famoso psicologo cognitivista Albert Bandura con il termine “human agency” o “agentività” [1]. In sintesi:
• sensazione di auto-efficacia (è da escludere che i topi facessero valutazioni sulle proprie capacità);
• “io penso di potercela fare” (è da escludere che i topi avessero un “Io”);
• intenzione di agire (forse l’unica intenzione dei topi era, istintivamente, salvarsi);
• capacità di agire attivamente (è da escludere che i topi di Selye potessero fare qualcosa).
Di là dei miei riferimenti a Selye, è sempre più chiaro che lo dobbiamo accantonare, per il semplice motivo che l’agentività cui fa riferimento la normativa sposta la questione. Inoltre abbiamo capito che non chiameremo “stress lavoro-correlato” le situazioni in cui un uomo sia come un topo-in-gabbia, perché non abbiamo (al momento) un Accordo né europeo né nazionale nel merito. Ma c’è di più. Nel succitato Accordo Europeo hanno introdotto la variabile tempo.
“L’individuo è capace di reagire alle pressioni cui è sottoposto nel breve termine, e queste possono essere considerate positive, ma di fronte ad un’esposizione prolungata a forti pressioni, egli avverte grosse difficoltà di reazione”.
Parafrasando il titolo del volume, possiamo affermare con buona approssimazione che:
• se siamo sotto pressione per brevi periodi…
⇒ stiamo lavorando
• se siamo sotto pressione per lunghi periodi…
⇒ stiamo sclerando
Manca un’indicazione di quanto sia lungo questo tempo, però – intanto– prendiamo atto!
Il testo dell’Accordo 8/10/2004 regala altre riflessioni, le riassumo:
• persone diverse possono reagire in modo diverso a situazioni simili;
• una stessa persona può, in momenti diversi della propria vita, reagire in maniera diversa a situazioni simili;
• lo stress non è una malattia;
• un’esposizione prolungata allo stress può ridurre l’efficienza sul lavoro e causare problemi di salute.
Il documento prova a elencare quali siano queste pressioni dannose, pur specificando che non intende “fornire una lista esaustiva dei potenziali indicatori di stress”:
– alto assenteismo;
– elevata rotazione del personale;
– conflitti interpersonali;
– lamentele frequenti da parte dei lavoratori;
– pianificazione dell’orario di lavoro;
– grado di autonomia;
– grado di coincidenza tra esigenze imposte dal lavoro e capacità o conoscenze dei lavoratori;
– carico di lavoro;
– condizioni e ambiente di lavoro;
– comunicazione;
– pressioni emotive e sociali;
– sensazione di non poter far fronte alla situazione;
– percezione di una mancanza di aiuto.
L’elenco –va detto– pur essendo presentato in forma sparsa non è privo di un suo senso; spiace solo questa approssimazione in un testo che funge da richiamo di legge!
Il 9 giugno 2008 è avvenuto il recepimento italiano di questo documento nel cosiddetto Accordo Interconfederale (siglato da una serie di associazioni tra cui Confindustria e la “Triplice” CGIL-CISL-UIL). Non si aggiunge nulla di nuovo ai concetti del 2004.
La storia di questa definizione non è terminata, perché il 17/11/2010 la Commissione ministeriale [2] ha prodotto un documento utile ad individuare dei criteri “minimi” di valutazione del rischio da stress lavoro-correlato. E’ riproposto un concetto già visto, con altre parole:
“Nell’ambito del lavoro tale squilibrio [lo stress, NdA] si può verificare quando il lavoratore non si sente in grado di corrispondere alle richieste lavorative”.
Sempre più chiaramente troviamo ribadito il concetto di agentività. A fronte di tutto questo, le metodologie suggerite dalla Commissione attendono ai cosiddetti fattori oggettivi, tralasciando quelli soggettivi, che sono –come avremo modo di spiegare– i più rilevanti. E’, infatti, obbligatorio misurare il rischio da stress lavoro-correlato mediante una semplice check list. Io trovo incongruente che i concetti vengano definiti in un modo per poi misurarli in un altro, ma questo concerne la pratica della valutazione del rischio e ne ho trattato in altri contesti.
Possiamo però mettere un altro paletto, pieno di fondamenti normativi…
– 2° LEGGE DELLO SCLERO: l’essere umano è sotto stress quando non riesce, o pensa di non riuscire, ad agire attivamente e/o intenzionalmente a fronte di pressioni ambientali prolungate nel tempo.
– 2° REGOLA DEL LAVORO: lo stress da sovrappressione si previene:
1) aziendalmente: riducendone l’entità e/o il tempo di esposizione;
2) personalmente: migliorando le proprie performance e/o la propria percezione di poterle migliorare.
Hai capito? Chiedi al tuo capo di stressarti un po’ di meno o di farlo per meno tempo. E riguardo a te, devi essere più problem-solver e puoi migliorare il senso di autoefficacia (parlane col tuo mental trainer… un professionista, mi raccomando!).
Fin qui abbiamo raccontato un po’ di cose concrete sullo stress, ma per affrontare un percorso di comprensione del fenomeno, è bene guardare alla complessità del problema.
Delle molte storie che si possono raccontare, voglio proporne una a suo modo rappresentativa, perché riguarda una persona di cui conosco il travaglio interiore. Riporto di seguito la trascrizione di un suo racconto, che peraltro attiene a una fase della sua vita in cui aveva acquisito migliori capacità di gestione del sé rispetto a quando l’ho conosciuto.
L’unica cosa che ho cambiato è il nome: diciamo che a parlare è Osvaldo. La storia è tratta dall’esperienza fatta all’ingresso in un nuovo ufficio dell’azienda per la quale lavora.
Qualche precisazione: ho cercato di riportare il testo e la punteggiatura in modo da riprodurre abbastanza fedelmente l’effetto del racconto-parlato. Quando c’è scritto: [Latenza] vuol dire che Osvaldo ha intervallato le parole con un lungo silenzio. Le mie note sono in parentesi quadra. La persona protagonista di questo racconto mi ha autorizzato a scriverlo. Il testo comincia con le parole di accoglienza che gli sono state rivolte la mattina in cui si è presentato nel nuovo ufficio.
L’esperienza di Osvaldo in un nuovo ufficio
«Ah bene, iniziamo male: quello è il mio posto. Oggi ti va bene, ma non pensare di star lì » [cita le parole della capufficio al suo arrivo]
Scusami? Già lì ho detto: oh dio… cosa mi capiterà?
Da quel momento ho cominciato a vivere con angoscia interiore una battaglia veramente dura con me stesso e con gli altri, nel senso che … [latenza]
La collega non scherzava. Non era una battuta. Io ero stato messo lì per fare affiancamento. Poi –va beh!– lei mi chiese scusa dopo dieci minuti, però il clima che c’era lì era questo per i “nuovi arrivati”.
L’esempio che calza è quello del militare, sicuramente questa esperienza è simile. Perlomeno, tutto è soggettivo e personale, io l’ho vissuta male. Questa cosa mi ha fatto sprofondare un
po’; sempre più in uno stato di perenne angoscia, perenne paura di … [latenza]
Quei periodi in cui dici non ce la faccio – non so cosa fare, ho bisogno di un appiglio perché non riesco più ad andare avanti.
Come se rivivessi ogni giorno lo stesso giorno. Io mi rendo conto di non aver vissuto perché tutte le mie energie, tutti i miei pensieri erano rivolti sempre a quello:
illavoroillavoroillavoroimieicolleghiilmiocapoillavoro…
E’ stata dura perché mi sono trovato a dover gestire lavoro-eprivato im…provvisando. [Lunga latenza, schiarisce la voce, tossisce, ride d’imbarazzo, si arena sulla propria emotività]
Ho passato appunto questo anno e mezzo ad arrivare al lavoro ogni giorno cercando di far finta che tutto andasse bene, e nei limiti del possibile di sorridere sempre, di essere educato anche quando c’era un clima che col coltello lo tagliavi a fettine. Mi trovavo a dover gestire queste situazioni senza saper gestire la situazione lavorativa. A parte qualche giorno di affiancamento… a tutt’ora ho delle lacune su cosa e come dovessi fare le cose, quale fosse il mio compito giornaliero.
Vedevo i miei colleghi molto sciolti, affiatati fra di loro ed anch’io volevo cercare di entrare in questo meccanismo per far sì che le cose andassero meglio. Però in realtà io sapevo già che per svariati motivi questa cosa non sarebbe successa.
I miei colleghi erano molto abituati a questo clima, un terrorismo psicologico con tutti zitti, senza rivolgersi una parola, c’era sempre questo nervosismo imperante in quell’ufficio. Come se fossero cose più grandi di me, che io non sapevo affrontare. E che io non volevo affrontare. Era come se non volessi essere lì, non volessi viverla quella situazione. Non me ne fregava niente, ecco. Loro [i colleghi] sapevano come muoversi: ci sono i soldati che nella giungla, nella foresta, si muovono come se fossero a casa.
Negli scambi di opinione che abbiamo avuto coi colleghi –alla fine eravamo in quattro più la “capa” ed il “capone”– cercando di giustificare il comportamento della “capa”, abbiamo visto che lei fa sempre così con tutti, ovvero lascia lì: o nuoti o affondi. La sua filosofia è: «A me non me ne frega un cazzo»
E io sono affondato. Non mi sono dato una chance. No, non me la sono dato, assolutamente no; ma anche perché non la volevo, io stavo bene nel mio mondo, con poco; ero entusiasta nel mio reparto precedente, lavoravo con voglia, con passione, con dedizione. E lì mi hanno fatto perdere tutto quanto. Il lavoro non era del tutto semplice, ma se mi fossero state spiegate le cose con chiarezza, sicuramente avrei fatto di meglio. Gli altri caratterialmente se ne fregano, rispondono anche. Il mio maggiore limite è che io affronto la situazione di petto solo quando non ce la faccio più. A livello lavorativo: uno di loro era molto bravo, un altro “paraculato” e messo lì. Il lavoro era di responsabilità, il rischio di fare manovre sbagliate, che potessero avere ripercussioni aziendali sensibili, c’era anche se a me non è mai successo nulla. A parte l’aspetto lavorativo, la situazione è degenerata a livello caratteriale. Io non avevo il loro carattere, ero il pesce fuor d’acqua. Alla mia “capa” questo atteggiamento non andava giù, come a me non andava giù lei. Senza mai degenerare, ma la situazione era palese. In questo periodo ho dovuto fare i conti con me stesso.
Una situazione tipica… arrivo al mattino: buongiorno a tutti!
«… ciao …»
Arriva lo store manager: «Allora: quanto abbiamo venduto ieri? Male… ambim-bo…». Fa la conta su di noi per chi deve licenziare oggi. Così tutti i santissimi giorni. Va bene una volta, due tre, poi… senti… magari dopo un po’ uno comincia a crederci. L’altro capo idem, perché deve imitare lo store manager. Io non venivo considerato neanche di striscio, nemmeno mi si
rivolgeva la parola.
Sempre tutti incazzati, se chiedi qualcosa la risposta non era proprio carina. E così ciascuno doveva stare sulle sue, fare il proprio compitino quotidiano. In caso di necessità ci si poteva rivolgere al collega “bravo”. Nei vari colloqui avuti con la “capa” io esprimevo le mie perplessità, chiedevo di essere assistito. I colloqui erano tranquilli e persino comprensivi, in apparenza. Ma poi non cambiava nulla. La richiesta di conoscenza e coinvolgimento suscitava risposte positive. Ma zero, tutto come prima. Fin quando non ho preso il coraggio, e ho detto che era meglio per tutti che io cambiassi reparto.
La molla nasce dai colloqui con lei… [Cioè io]
Col tempo, una leggera confidenza con i colleghi si era creata. Il problema era sia di ambiente sia di lavoro. Ormai –è pazzesco– dopo un po’ è come se avessi resettato, non ricordo nemmeno episodi specifici. Forse il mio era un limite attitudinale. Ad esempio… ho scarsa capacità di concentrazione. Si sicuramente. Però non riuscivo, non mi veniva di mettermi d’impegno, non avevo voglia di impegnarmi, come per preservare la mia già poca autostima non-cimentandomi. Sono convinto che in altre condizioni ci avrei messo del tempo, ma ce l’avrei certamente fatta. Lo dico a me stesso, eh…
Quell’esperienza non la ripeterei per nulla al mondo. Per carità, mi è servita. Vorrei non ricascare sempre negli stessi errori, anche se sembra che ci riesca benissimo… Oggi il mio lavoro è più tranquillo, meno carico di responsabilità e buoni rapporti con tutti. Mi capita di sentirmi escluso qualche volta dal responsabile: perché? Non glielo chiedo, per evitare le conseguenze dell’impulsività….
Potrei scrivere molto per commentare questo caso, ma preferisco lasciare al lettore qualsiasi –libera– interpretazione.
NB: Nelle prossime settimane PuntoSicuro pubblicherà altri capitoli del libro dedicati al mal-essere nel mondo del lavoro.
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[1] Bandura, A. (1997), Autoefficacia: teoria e applicazioni. Tr. it. Erikson, Trento, 2000.
[2] Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro, prevista ex art. 6 del D.Lgs. 81/08 ed istituita presso il Ministero del Lavoro.
Fonti: Puntosicuro.it