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Per la Cassazione, che lo scorso 19 novembre ha annullato la condanna per disastro ambientale inflitta al magnate svizzero Stephan Schmidheiny, i giudici della Corte d’Appello hanno “confuso il reato con la permanenza dei suoi effetti”. Con questa decisione, cancellati anche tutti i risarcimenti alle parti civili

Il processo di Torino per le morti negli stabilimenti italiani della Eternit, la multinazionale svizzera dell’amianto, era prescritto ancora prima del rinvio a giudizio del magnate elvetico Stephan Schmidheiny, condannato sia in primo grado sia in appello per disastro ambientale doloso. Lo sostiene la Cassazione nelle motivazioni del verdetto dello scorso 19 novembre, che sono state depositate oggi.

Il calcolo temporale parte dall’agosto 1993. Per i giudici della Corte Suprema “a far data dall’agosto dell’anno 1993” era ormai evidente l’effetto nocivo delle polveri di amianto la cui lavorazione in quell’anno era stata “definitivamente inibita, con comando agli enti pubblici di provvedere alla bonifica dei siti”. A partire da quella data, fino al rinvio a giudizio del 2009 e alla sentenza di primo grado del 13 febbraio 2012, “sono passati ben oltre i 15 anni previsti” per “la maturazione della prescrizione in base alla legge 251 del 2005”. Insieme alla condanna inflitta a Schmidheiny, la prescrizione annulla anche tutti i risarcimenti milionari che erano stati riconosciuti alle parti civili nei primi due gradi di giudizio. “Per effetto della constatazione della prescrizione del reato, intervenuta anteriormente alla sentenza di primo grado”, si legge infatti nelle motivazioni, cadono “tutte le questioni sostanziali concernenti gli interessi civili e il risarcimento dei danni”.

Il disastro non era l’imputazione da applicare”. “Il tribunale – prosegue la Cassazione – ha confuso la permanenza del reato con la permanenza degli effetti del reato, la Corte di Appello ha inopinatamente aggiunto all’evento costitutivo del disastro eventi rispetto a esso estranei e ulteriori, quali quelli delle malattie e delle morti, costitutivi semmai di differenti delitti di lesioni e di omicidio”. Per la Corte Suprema, l’imputazione di disastro a carico di Schmidheiny non era la più adatta da applicare per il rinvio a giudizio, dal momento che la condanna massima sarebbe stata troppo bassa: “Colui che dolosamente provoca, con la condotta produttiva di disastro, plurimi omicidi, ovverosia, in sostanza, una strage”, scrivono i giudici, verrebbe punito soltanto con 12 anni di carcere e questo è “insostenibile dal punto di vista sistematico, oltre che contrario al buon senso”.

Con il fallimento delle società venuto meno il potere gestionale”. Secondo la Cassazione “la consumazione del reato di disastro non può considerarsi protratta oltre il momento in cui ebbero fine le immissioni delle polveri” di amianto prodotte dagli stabilimenti gestiti da Schmidheiny, e cioè “non oltre il mese di giugno dell’anno 1986, in cui venne dichiarato il fallimento delle società del gruppo”. Con il fallimento, infatti, “venne meno ogni potere gestorio riferibile all’imputato e al gruppo svizzero” e gli stabilimenti Eternit di Casale Monferrato (Alessandria), Cavagnolo (Torino), Rubiera (Reggio Emilia) e Bagnoli (Napoli) cessarono l’attività produttiva “che aveva determinato e completato per accumulo e progressivo incessante incremento la disastrosa contaminazione dell’ambiente lavorativo e del territorio circostante”.

Nell’ordinamento nessun obbligo di bonifica”. Respingendo la tesi di alcuni dei difensori delle vittime, che ritenevano che l’imprenditore svizzero dovesse essere dichiarato responsabile per la mancata o incompleta bonifica, i giudici scrivono anche che “non può annettersi rilievo, nella situazione normativa data, alla circostanza della mancata o incompleta bonifica dei siti” contaminati dall’amianto nelle zone di produzione della Eternit. L’incriminazione del reato di disastro, infatti, “non reca traccia di tale obbligo, né esso, o altro obbligo analogo, può desumersi dall’ordinamento giuridico, specie se riportato al momento in cui lo stesso dovrebbe considerarsi sorto (1986)”.

L’Italia non adottò i provvedimenti dovuti”. Quando Schmidheiny nel 1976 “aveva assunto la responsabilità della gestione del rischio di amianto per le aziende Eternit Italia, gli effetti ‘disastrosi’ della lavorazione (almeno quella non adeguatamente controllata) dell’asbesto erano scientificamente noti” e il problema delle “patologie tumorali” venne “posto in luce in sede comunitaria agli inizi degli anni 80”. Il nostro Paese, sottolinea la Cassazione, “non adottò per tempo i provvedimenti dovuti e la corte di giustizia CE, dopo una procedura di infrazione promossa nel 1990, dichiarò l’Italia inadempiente all’obbligo di dotarsi di una normativa anti-amianto”. A questo proposito, sostengono i giudici, c’è stata “una lentezza della politica a problemi di tale fatta” e anche un “ritardo nella informazione scientifica degli organi pubblici”, dovuto sempre alla “lentezza della politica”.

 

Fonti: Inail