L’uomo deve essere al centro di ogni pianificazione dei sistemi di emergenza. A cura di Elisabetta Schiavone.
Uno degli ambiti primari della sicurezza è quello dei luoghi di lavoro. Del resto, ad esclusione della casa e degli spazi urbani, ogni luogo che viviamo o frequentiamo è luogo di lavoro: lo è la scuola, l’ospedale e tutti gli edifici pubblici in generale, le strutture ricettive, gli esercizi commerciali, le strutture sportive, i cinema e tutte le attività produttive.
Molti di questi sono luoghi ad alto affollamento e alcune attività si svolgono in luoghi all’aperto. Sono diverse le strutture, gli spazi, gli allestimenti e le funzioni. Sono diverse anche le persone che vivono quei luoghi eppure l’attenzione nel progetto della sicurezza ricade prevalentemente sul contenitore, sullo scenario, l’ambiente fisico con i suoi dispositivi. Tutto ciò che può essere progettato, costruito, integrato, adeguato. Standardizzato. Abbiamo ben presente una parete o una porta REI, un estintore, la segnaletica di emergenza e le sirene di allarme. Magari non le ricordiamo perfettamente ma conosciamo l’esistenza delle procedure da adottare in risposta ad emergenze diverse, come ad esempio il mettersi sotto a un tavolo in caso di terremoto. Ma siamo sicuri che tutti riescano a utilizzare l’estintore che abbiamo appeso oltre il metro e mezzo di altezza o che possano percepire un allarme sonoro? Abbiamo la certezza che tutti riescano a piegarsi e inginocchiarsi sotto un tavolo?
Quello che nella maggior parte dei casi trascuriamo sembra essere la componente umana, le persone e le loro differenti esigenze e capacità. O meglio, utilizziamo di questa componente una rappresentazione poco rispondente alla realtà, impiegando modelli che non esplicitano realmente la diversità umana e le sue sfumature.
Un aspetto che non siamo in grado di considerare fino in fondo nel progetto dell’ambiente costruito ma ancor più nella progettazione della sicurezza e nella pianificazione dell’emergenza riguarda l’autonomia delle persone e la differente capacità di risposta a una situazione critica in relazione al contesto. Contesto che può ostacolare o facilitare la performance individuale e, di conseguenza, la risposta collettiva degli occupanti.
Di occupanti e loro caratteristiche parla il Codice di prevenzione incendiche nella sua ultima edizione (D.M. 18/10/2019) non distingue più tra occupanti e occupanti con disabilità, ma ne dà un’unica definizione: “Persona presente a qualsiasi titolo all’interno dell’attività, considerata anche alla luce della sua modalità di interazione con l’ambiente in condizioni di disabilità fisiche, mentali o sensoriali”. Viene introdotto anche il concetto di specifiche necessità per cui “le diverse disabilità (es. fisiche, mentali o sensoriali) e le specifiche necessità temporanee o permanenti degli occupanti sono considerate parte integrante della progettazione della sicurezza antincendio”.
Il fine primario delle attività di progettazione della sicurezza, prevenzione e pianificazione dell’emergenza è la salvaguardia delle persone che a vario titolo vivono o frequentano i luoghi di lavoro, siano essi lavoratori o avventori. Dobbiamo quindi essere consapevoli di come il progetto dell’ambiente costruito e la definizione delle procedure di risposta all’emergenza concorrono a determinare l’autonomia delle persone e di conseguenza la loro capacità di attuare comportamenti corretti in risposta agli eventi, inclusi incidenti e catastrofi.
Ad oggi definiamo procedure senza avere consapevolezza della complessità rappresentata dalle persone che saranno chiamate ad agirle, senza considerare eventuali specifiche necessità e procedure realmente attuabili da ciascuno. Di fatto tra le tante variabili contemplate dal progetto quella che non consideriamo è la variabilità umana, la possibilità che fra i lavoratori e gli avventori di un luogo, un edificio, un’attività, vi siano persone con disabilità o più semplicemente con specifiche necessità dettate da una condizione di salute temporanea o permanente, o addirittura contingente, come può essere una situazione di emergenza. E invece è proprio l’emergenza lo scenario nel quale diventa imprescindibile considerare ogni possibile criticità connessa con la capacità di risposta delle persone e dunque il contributo dell’ambiente, dei dispositivi e delle procedure, nel facilitare ciascun individuo nell’agire una risposta adeguata.
Il concetto di facilitatore, che si contrappone a quello di barriera, deriva proprio dall’ICF (OMS, 2001), la Classificazione Internazionale del Funzionamento della disabilità e della salute, che definisce la disabilità come condizione correlata al contesto, non propria della persona. Nel modello bio psico sociale descritto dall’ICF per la prima volta l’ambiente fisico e sociale viene inserito fra i parametri che definiscono tale condizione in concorso con lo stato di salute: la performance non è più unicamente correlata alle abilità personali ma funzione di una complessa relazione tra le condizioni di salute dell’individuo e le caratteristiche dell’ambiente in cui lo stesso vive e svolge le diverse attività. In questo scenario vengono descritte come barriere i fattori che, mediante la loro presenza o assenza, limitano il funzionamento e creano disabilità; di contro i facilitatori sono fattori che, mediante la loro presenza o assenza, migliorano il funzionamento e riducono la disabilità. La consapevolezza di come ambienti diversi possano avere un impatto molto diverso sullo stesso individuo con una data condizione di salute diventa dunque dirimente in campo progettuale: ambienti con barriere, o senza facilitatori, limiteranno la performance individuale mentre ambienti facilitanti potranno favorirla.
Il contributo dell’ambiente, fisico e sociale, ovvero del progetto, dei dispositivi ma anche delle relazioni, deve mirare a garantire l’autonomia anche in emergenza, mettendo la persona nelle condizioni di autonomia pari all’ordinario, fino a dove ciò risulti possibile. Nel caso si rendesse necessario un intervento di soccorso sarà ancora l’ambiente a dover facilitare coloro che intervengono per aiutare o soccorrere, magari prevedendo dispositivi specifici per il trasporto e l’evacuazione di persone che non sono in grado di muoversi. Oltre ad ambienti facilitanti occorre che lo siano anche le procedure, ovvero che prevedano azioni perseguibili da chiunque anche attraverso l’adozione di dispositivi e sistemi di comunicazione accessibili.
Per questi motivi è opportuno considerare la diversità umana avendo come riferimento lo spettro del funzionamento e non incorrere nell’errore di ridurre le persone a rappresentazioni standard anche nella disabilità, vale a dire la disabilità motoria con la carrozzina, la disabilità visiva con la cecità totale e così via. Dobbiamo considerare ad esempio le difficoltà di una persona obesa o di un cardiopatico in uno scenario emergenziale e l’eventualità che le capacità individuali possano variare nello stesso soggetto nell’arco della giornata magari a seguito di una patologia neurologica. Trascurare che in Italia il 46% degli adulti e il 24,2% tra bambini e adolescenti sono in eccesso di peso, dati dell’IBDO Foundation, il primo osservatorio sul diabete a livello mondiale, significa non considerare le difficoltà che oltre 24 milioni e 700 mila persone potrebbero incontrare nell’evacuare un edificio in caso di incendio.
Il nostro obiettivo è la sicurezza delle persone, ma non considerandone le caratteristiche non siamo in grado di misurare le azioni di prevenzione e di risposta alle reali necessità e capacità di quanti occuperanno i luoghi progettati. La maggior parte se non la totalità dei piani di emergenza di qualsiasi attività rappresenta infatti la disabilità come passiva: le persone con disabilità, quando considerate, sono oggetto di attenzione da parte di addetti non disabili che sono chiamati a individuarli e mettere in atto le procedure di evacuazione. Il che sottintende un discrimine netto tra persone con disabilità e non, tra chi può fare e chi è semplicemente destinatario di un’azione di protezione e soccorso. Questo rende vulnerabile una parte di popolazione altrimenti in grado di agire la propria sicurezza. Inoltre la sicurezza non può essere di dominio degli addetti ai lavori quali tecnici, soccorritori o squadre aziendali. Ciascuno deve essere consapevole e responsabile della propria sicurezza ma perché ciò accada occorre intervenire su più fronti:
il progetto della sicurezza inclusiva;
la pianificazione inclusiva delle emergenze;
la formazione e l’addestramento dei lavoratori considerando le specifiche necessità di occupanti noti o potenziali;
esercitazioni che coinvolgano anche i visitatori presenti nei luoghi di lavoro (ad esempio nei centri commerciali, musei, stadi) incluse persone con disabilità.
Oltre ai luoghi di lavoro, dove grazie alle attuali norme è d’obbligo intervenire in tal senso, sarebbe opportuno estendere tale approccio alle abitazioni che ad oggi rappresentano il luogo con il rischio più elevato di incidente e con le conseguenze più gravi proprio a carico delle persone più fragili, come anziani, bambini e persone con disabilità. Solo con la cultura della sicurezza inclusiva potremo passare dalla sicurezza dei luoghi alla sicurezza delle persone, nessuno escluso.
Fonte: PdE, n. 60, Puntosicuro.it, Elisabetta Schiavone