Un saggio relativo alla tutela della salute dei lavoratori in relazione all’emergenza COVID-19 si sofferma sugli obblighi datoriali. I rischi professionali, le attività soggette all’aggiornamento del DVR e gli obblighi dei datori di lavoro.
Come abbiamo mostrato in precedenti articoli diversi saggi pubblicati su “Diritto della sicurezza sul lavoro”, rivista dell’Osservatorio Olympus e pubblicazione semestrale dell’ Università degli Studi di Urbino, hanno permesso di fare alcune riflessioni sul tema dell’impatto dell’emergenza COVID-19 sul mondo del lavoro con specifico riferimento agli obblighi datoriali.
A questo proposito, dopo aver presentato i saggi di Paolo Pascucci e di Chiara Lazzari, ci soffermiamo oggi su un saggio scritto da Lorenzo Maria Pelusi, dottore di ricerca in diritto del lavoro ( Università di Bergamo), e che, con riferimento anche al contenuto del “ Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro” del 14 marzo 2020, si propone di esaminare gli obblighi ascrivibili al datore di lavoro ai fini della prevenzione del rischio di contrarre il nuovo Coronavirus nei luoghi di lavoro”.
In particolare l’autore, nel saggio “Tutela della salute dei lavoratori e COVID-19: una prima lettura critica degli obblighi datoriali”, applicando il concetto di rischio professionale, già presentato in altri saggi della stessa rivista, individua le attività produttive in cui è necessario procedere a nuova valutazione dei rischi e analizza le misure che tutti i datori sono tenuti ad adottare per scongiurare il contagio.
In questo articolo ci soffermeremo brevemente su alcuni aspetti:
- Il rischio professionale e la nozione di prevenzione
- Le attività soggette all’aggiornamento del DVR
- Cosa si deve chiedere al datore di lavoro
Il rischio professionale e la nozione di prevenzione
L’autore indica che al di là delle normative che nella cosiddetta Fase 1 hanno determinato la sospensione di molte attività, si ritiene utile “fornire un contributo per dare un inquadramento giuridico a questo nuovo rischio per la salute dei lavoratori e delimitare di conseguenza gli obblighi di prevenzione ascrivibili al datore di lavoro”. Anche perché se il fondamento dell’obbligo di sicurezza datoriale nei confronti dei lavoratori resta l’art. 2087 c.c.: «l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro», “deve ritenersi pacifico che al datore di lavoro sia richiesta una condotta attiva volta a prevenire il rischio di contaminazione nei locali aziendali”. Ma restano da appurare “quali siano gli obblighi incombenti sul datore”.
Ed è evidente che la questione che “più di tutte sta affliggendo da giorni i datori di lavoro e i tecnici della prevenzione riguarda la presunta obbligatorietà di un aggiornamento del Documento di valutazione dei rischi (DVR) in relazione al rischio biologico”.
In questo senso si ribadisce che benché la formulazione dell’art. 28 del d.lgs. n. 81/2008, riguardo all’oggetto della valutazione dei rischi, fa riferimento a «tutti i rischi per la sicurezza e
la salute dei lavoratori», in realtà “è necessario appurare quale sia il rischio attorno al quale ruota l’intero (impropriamente detto) testo unico” e l’esito di questa operazione “induce a ritenere che il rischio rilevante ai fini della normativa prevenzionistica sia esclusivamente il ‘rischio professionale’, endogeno all’attività produttiva in quanto con essa in rapporto di causa-effetto”. Infatti – continua l’autore – “pur essendo vero che, nell’art. 2 del d.lgs. n. 81/2008, la definizione di valutazione dei rischi è tanto ampia da consentire di ritenervi inclusi anche quei rischi non connaturati all’attività propria dell’impresa ma solo occasionalmente presenti all’interno dell’organizzazione, va parimenti ricordato che la nozione di prevenzione ivi contenuta fa espresso riferimento unicamente ai rischi professionali”.
E, dunque, se l’attività di prevenzione “è strettamente incentrata sui soli rischi di natura professionale, ne consegue che non avrebbe alcun senso ricomprendere nella valutazione anche rischi ulteriori ai primi, considerato che l’obbligo indelegabile di cui all’art. 17 del d.lgs. n. 81/2008 è strumentale alla prevenzione, essendo proprio finalizzato a selezionare le misure di prevenzione adeguate per la gestione dei rischi individuati nell’organizzazione”.
Rimandiamo alla lettura integrale del documento che riporta ulteriori indicazioni e si sofferma anche sulla distinzione tra un rischio biologico “endoaziendale” e un rischio biologico di origine “esoaziendale”, tra rischio endogeno ed esogeno.
Le attività soggette all’aggiornamento del DVR
Seguendo il ragionamento presentato nel saggio, l’autore conclude che a dover rivedere il DVR “saranno le realtà aziendali in cui si fa un utilizzo deliberato di agenti biologici (ad esempio laboratori di ricerca microbiologica) o in cui si ha una possibilità di esposizione connaturata alla tipologia dell’attività svolta (strutture sanitarie)”.
Mentre dovranno ritenersi “esentate tutte le altre attività nelle quali un’esposizione al COVID-19 non è connaturata alla tipologia dell’attività svolta, bensì discende esclusivamente dalle peculiari condizioni di contesto epidemiologico”.
In particolare nei primi contesti produttivi, “se il datore di lavoro – con la collaborazione del servizio di prevenzione e protezione e del medico competente – riscontrasse una inidoneità preventiva del proprio sistema di sicurezza rispetto al nuovo Coronavirus, sarebbe di certo tenuto ad aggiornare il DVR e adottare quelle misure di prevenzione e protezione necessarie per garantire il controllo dell’esposizione a tale rischio”.
Mentre nelle aziende in cui quest’ultimo rappresenta soltanto un rischio generico, “sarà sufficiente per il datore applicare e vigilare sul rispetto delle misure di prevenzione suggerite dalle autorità sanitarie per contenere la diffusione del virus”.
Secondo l’autore a corroborare tale interpretazione “è anche il testo dell’art. 29, comma 3, del d.lgs. n. 81/2008, il quale disciplina le ipotesi che danno origine a un obbligo di aggiornamento del DVR. Queste ipotesi sono quattro, ovvero: modifiche del processo produttivo o della organizzazione del lavoro che impattino sulla salute e sicurezza dei lavoratori; evoluzione tecnologica che consenta una migliore prevenzione; verificazione di infortuni significativi; esiti della sorveglianza sanitaria che evidenzino la necessità di un aggiornamento del documento. Dunque, tra le causali da cui deriva l’obbligo di rielaborazione del DVR non sono indicate circostanze ambientali estranee ai rischi specifici aziendali come è l’ipotesi di una epidemia”.
E sembra quindi possibile ritenersi escluso “un obbligo di aggiornamento per quelle imprese il cui processo produttivo non includa attività che prevedono una deliberata (o aggravata, benché fortuita) esposizione al rischio biologico, presentando soltanto un rischio di esposizione generico”.
Cosa si deve chiedere al datore di lavoro
L’autore si chiede poi, “in relazione alla posizione di garanzia configurabile in capo al datore di lavoro, incentrata sulla natura strettamente professionale dei rischi da neutralizzare”, “cosa sia esigibile e cosa no, nell’ambito dell’opera di contrasto del virus”.
Anche perché “sembra infatti emergere una discrepanza fra quanto il vertice dell’impresa viene de facto chiamato a fare per contenere il rischio di contaminazione biologica, soprattutto in termini di profilassi igienica e riorganizzazione delle procedure di lavoro, e quanto sarebbe ex lege tenuto a fare sul piano della prevenzione. Ma tale incongruenza risulta superabile facendo applicazione del criterio dell’aumento del rischio”.
In definitiva il datore “è tenuto ad adottare una serie di soluzioni organizzative e di dispositivi di prevenzione non già in qualità di dominus della fonte di pericolo da cui scaturisce il rischio di contagio (pacificamente estranea all’impresa), ma perché l’adozione di simili misure è in grado di uniformare il livello di rischio interno ai luoghi di lavoro al livello presente all’esterno, considerato che si tratta delle stesse misure messe in atto dalla collettività intera al fine di arginare l’infezione. Solo in questo modo il grado probabilistico di contagio presente nello svolgimento dell’attività produttiva viene ricondotto nell’area del rischio consentito. E solo in questo modo il datore di lavoro può considerarsi adempiente dell’obbligo di sicurezza declinato dall’ art. 2087 c.c.”.
Rimandiamo, infine, alla lettura integrale del saggio che si sofferma su molti aspetti e che, riguardo al rapporto tra obbligo di sicurezza e modalità di prevenzione, ricorda sia il contenuto della circolare del Ministero della Salute del 3 febbraio 2020 (“ Indicazioni per gli operatori dei servizi/esercizi a contatto con il pubblico”) sia il contenuto del successivo “Protocollo condiviso” del 14 marzo 2020.
Il protocollo, sottoscritto da Governo, organizzazioni datoriali e sindacali, “esordisce richiamando le disposizioni restrittive per le attività produttive già introdotte con il D.P.C.M. dell’11 marzo 2020, al fine di contenere la diffusione del virus”.
L’autore ripercorre tutte le indicazioni per il datore di lavoro che discendono dal “ Protocollo condiviso” o da altre circolari e norme, anche con riferimento all’utilizzo di dispositivi di protezione, come camici, guanti e respiratori facciali.
E conclude che le misure indicate devono considerarsi doverose “in forza dell’obbligo di tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori che l’art. 2087 c.c., con la sua ampia formulazione, pone in capo al datore”. Al di là della normativa successiva al protocollo condiviso, “tale obbligatorietà, quindi, prescinde dalla efficacia vincolante o meno che sia da attribuirsi alle fonti attraverso le quali dette misure vengono portate a conoscenza del datore di lavoro. Ciò perché gli accorgimenti organizzativi e i mezzi di prevenzione di recente raccomandati attraverso accordi interconfederali, decreti governativi e circolari ministeriali devono essere ricondotti a quelle misure che, alla luce della migliore tecnica a disposizione, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Scarica il documento da cui è tratto l’articolo:
Università di Urbino Carlo Bo, Osservatorio Olympus, Diritto della sicurezza sul lavoro, “ Tutela della salute dei lavoratori e COVID-19: una prima lettura critica degli obblighi datoriali”, a cura di Lorenzo Maria Pelusi, dottore di ricerca in diritto del lavoro – Università di Bergamo – DSL 2-2019 (formato PDF, 324 kB).
Scarica la normativa di riferimento:
Fonti: università di Urbino, Puntosicuro.it, Gazzetta ufficiale, Università di Bergamo