Deve escludersi la configurabilità del reato di cui all’art. 4 dello statuto dei lavoratori quando gli impianti audiovisivi o di controllo a distanza installati nei luoghi di lavoro siano strettamente funzionali alla tutela del patrimonio aziendale.
Si deve escludere la configurabilità del reato di cui all’art. 4 dello statuto dei lavoratori quando gli impianti audiovisivi o di controllo a distanza installati nei luoghi di lavoro siano strettamente funzionali alla tutela del patrimonio aziendale sempre, però, che il loro utilizzo non implichi un significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti, o debba restare necessariamente “riservato” per consentire l’accertamento di gravi condotte illecite degli stessi. E’ questo il principio richiamato dalla Corte di Cassazione in questa recente sentenza della IV sezione penale la quale ha sostanzialmente ribadito quanto già sostenuto in precedenti espressioni nella giurisprudenza penale e civile.
Nel caso in esame a suprema Corte alla luce del principio sopraindicato ha ritenuto fondato il ricorso di un datore di lavoro che, nella sua qualità di titolare di una ditta esercente di una attività di commercio al dettaglio, aveva installato impianti video all’interno della propria azienda, utilizzabili per il controllo a distanza dei dipendenti, senza aver richiesto l’accordo delle rappresentanze sindacali aziendali e senza l’autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro e ha rinviando gli atti al Tribunale di provenienza per un nuovo esame e per chiarire se l’installazione del sistema di videosorveglianza rilevato fosse strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale e fosse stato fatto per consentire l’accertamento di gravi condotte illecite anche da parte degli stessi lavoratori o comportasse invece un controllo sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti.
Il caso, la condanna e il ricorso in cassazione.
Il Tribunale ha dichiarato il titolare di una ditta esercente l’attività di commercio al dettaglio colpevole del reato di cui agli artt. 4, primo e secondo comma, e 38 della legge 20 maggio 1970 n. 300 e gli ha irrogato la pena di 200 euro di ammenda, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche. Secondo quanto ricostruito dal Tribunale, l’imputato aveva installato impianti video all’interno dell’azienda utilizzabili per il controllo a distanza dei dipendenti, senza aver richiesto l’accordo delle rappresentanze sindacali aziendali o dell’Ispettorato del lavoro.
L’imputato ha presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza del Tribunale articolando alcune motivazioni. Lo stesso ha sostenuto che gli impianti video installati non erano strumenti di controllo lesivi della libertà e dignità dei lavoratori, bensì sistemi difensivi a tutela del patrimonio aziendale e che gli stessi inoltre erano stati adottati a seguito del verificarsi di mancanze di merce nel magazzino ed erano stati comunque rivolti solo verso la cassa e le scaffalature. Ha ricordato altresì il ricorrente che, secondo la giurisprudenza, è sanzionabile l’installazione non concordata di strumenti di videosorveglianza solo in caso di possibile controllo a distanza dell’attività lavorativa dei dipendenti. La sentenza impugnata inoltre si era posta in netto contrasto con le risultanze istruttorie, e, in particolare con le dichiarazioni rese dalla moglie dalle quali era emerso che gli impianti erano stati stati installati a tutela del patrimonio aziendale, e non per controllare l’attività dei dipendenti.
Le decisioni in diritto della Corte di Cassazione.
Il ricorso è stato ritenuto fondato dalla Corte di Cassazione. La questione da esaminare, secondo la stessa, era quella di stabilire se fosse configurabile il reato per la violazione della disciplina di cui all’art. 4 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (c.d. “statuto dei lavoratori”), nel caso in cui l’impianto audiovisivo installato sul luogo di lavoro in difetto di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate, o di autorizzazione dell’Ispettorato del Lavoro, avesse la funzione di tutelare il patrimonio aziendale.
L’art. 4 della legge n. 300 del 1970, ha ricordato la suprema Corte, è a tutt’oggi penalmente sanzionata. Il testo originario dell’art. 4, nei primi due commi, prevedeva al primo comma che “È vietato l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività del lavoratore” e al secondo comma che “Gli impianti e le apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, possono essere installati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna. In difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l’ispettorato del lavoro, dettando, ove occorra, le modalità per l’uso di tali impianti”.
Il testo del comma 1 dell’art. 4, ha così proseguito la suprema Corte, è stato successivamente cambiato per effetto delle riforme recate prima dall’art. 23, comma 1, del D. Lgs. 14 settembre 2016, n. 151, e poi dall’art. 5, comma 2, del D. Lgs. 24 settembre 2016, n. 185, ma sembra ragionevole ritenere che la successione di discipline normative non ha apportato variazioni significative alla fattispecie incriminatrice. In effetti, la condotta vietata consisteva e consiste nella installazione degli impianti audiovisivi e degli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, e che possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale, in assenza di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate o di autorizzazione dell’Ispettorato del Lavoro.
La giurisprudenza di legittimità, ha evidenziato la Sez., IV, ritiene, anche nelle espressioni più recenti, che esulano dall’ambito di applicazione dell’art. 4 della legge n. 300 del 1970, e non richiedono l’osservanza delle garanzie ivi previste, i controlli difensivi da parte del datore se diretti ad accertare comportamenti illeciti e lesivi del patrimonio e dell’immagine aziendale. L’interpretazione della disposizione di cui al citato articolo 4 va, infatti, ispirata ad un equo e ragionevole bilanciamento fra le disposizioni costituzionali che garantiscono il diritto alla dignità e libertà del lavoratore nell’esercizio delle sue prestazioni oltre al diritto del cittadino al rispetto della propria persona (artt. 1, 3, 35 e 38 Cast.) ed il libero esercizio delle attività imprenditoriale (art. 41 Cast.). Tale soluzione risulterebbe altresì coerente con i principi dettati dall’art. 8 della CEDU in base al quale nell’uso degli strumenti di controllo, deve individuarsi un giusto equilibrio fra i contrapposti diritti sulla base dei principi della “ragionevolezza” e della “proporzionalità”.
Ad avviso della Cassazione quindi “deve escludersi la configurabilità del reato concernente la violazione della disciplina di cui all’art. 4 legge 20 maggio 1970, n. 300, quando l’impianto audiovisivo o di controllo a distanza, sebbene installato sul luogo di lavoro in difetto di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate, o di autorizzazione dell’Ispettorato del Lavoro, sia strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, sempre, però, che il suo utilizzo non implichi un significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti, o debba restare necessariamente “riservato” per consentire l’accertamento di gravi condotte illecite degli stessi”.
L’interpretazione sopraindicata in ordine all’ambito di applicazione del reato concernente la violazione della disciplina di cui all’art. 4 della legge n. 300/1970 evidenzia quindi, secondo la suprema Corte, le lacune della motivazione della sentenza impugnata denunciate nel ricorso. Il Tribunale, in effetti, aveva affermata la penale responsabilità del ricorrente osservando che nell’esercizio commerciale del medesimo era installato un sistema di videosorveglianza dei lavoratori non concordato con i sindacati, né altrimenti autorizzato senza però avere tenuto conto e senza avere fatto alcun esame critico delle dichiarazioni testimoniali rese dalla moglie dell’imputato, secondo le quali l’impianto era stato posizionato a seguito del rilievo di mancanze di merci, ed era rivolto solo verso la cassa e le scaffalature. In tal modo, la decisione oggetto di ricorso non ha chiarito se l’installazione del sistema di videosorveglianza rilevato fosse strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, né se l’utilizzo del precisato impianto comportasse un controllo non occasionale sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti, o, comunque, dovesse restare necessariamente “riservato” per consentire l’accertamento di gravi condotte illecite di questi ultimi.
Per tali motivi quindi, in conclusione, la Corte di Cassazione ha annullata la sentenza impugnata e rinviata la stessa per un nuovo giudizio al Tribunale al fine di effettuare tutti gli accertamenti ritenuti necessari per verificare se l’installazione del sistema di videosorveglianza riscontrato dagli Ispettori del Lavoro fosse strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, e, in caso di risposta affermativa, se l’utilizzo dell’impianto avesse comportato un controllo non occasionale sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti, oppure dovesse restare necessariamente “riservato” per consentire l’accertamento di gravi condotte illecite di questi ultimi.
Fonti: Olympus.uniurb.it, Puntosicuro.it