Il datore di lavoro è responsabile dell’infortunio accaduto ad un lavoratore dipendente durante l’uso di una scala non rispondente alle norme la quale, benché non di sua proprietà, è risultata essere comunque disponibile per il lavoratore. Di G.Porreca.
Commento a cura di Gerardo Porreca.
Il datore di lavoro è responsabile dell’infortunio accaduto ad un lavoratore dipendente durante l’uso di una scala non rispondente alle disposizioni di legge in materia di salute e di sicurezza sul lavoro la quale, benché non di sua proprietà, è risultata essere comunque disponibile per il lavoratore medesimo. E’ quanto emerge da questa recente sentenza della Corte di Cassazione. La scala in effetti era stata lasciata nel magazzino gestito dall’azienda dal locatore precedente e il datore di lavoro nulla aveva fatto per segnalare di non usarla o per vietare che comunque fosse utilizzata. La Corte suprema ha individuato nell’accaduto il nesso di causalità fra l’omissione ascritta al datore di lavoro e l’evento infortunistico e ha giudicato non anomalo il comportamento del lavoratore infortunato per avere usata la prima scala che ha trovata a portata di mano senza averne cercata un’altra più sicura per assolvere alle sue mansioni.
Il caso, l’iter giudiziario e il ricorso in Cassazione
Il Tribunale ha dichiarato il datore di lavoro di una società responsabile del delitto di lesioni personali ex art. 590, commi 1°, 2° e 3° cod. pen. commesso per colpa generica e per la violazione di specifiche norme antinfortunistiche in danno di un lavoratore dipendente della società stessa il quale si era infortunato, riportando ferite nella regione frontale e fratture alla gamba destra giudicate guaribili in un tempo superiore a giorni 40, cadendo a terra dalla scala sulla quale era salito per prelevare materiale stoccato a circa 168 cm di altezza, caduta dovuta alla mancanza, alle estremità inferiori dei due montanti ed alle estremità superiori della scala, del dispositivi antisdrucciolevoli nonché dei ganci di trattenuta. Il Tribunale ha condannato, quindi, l’imputata alla pena di giorni venti di reclusione, concesse le attenuanti generiche dichiarate equivalenti alla contestata aggravante, nonché al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separata sede.
La Corte d’Appello ha successivamente confermata la pronunzia di primo grado per cui il datore di lavoro, per tramite del difensore, ha ricorso per cassazione chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata. Lo stesso ha lamentato fra l’altro che la Corte d’Appello avrebbe giudicato la parte offesa assolutamente credibile benché fosse stata in realtà smentita dagli altri testi che avevano riferito, al contrario, che la scala in questione, al momento del fatto, si trovava non all’interno ma all’esterno del magazzino aziendale, che nessun dipendente inoltre aveva mai usato detta scala e che la società aveva invece messo a disposizione scale idonee e conformi alle prescrizioni antinfortunistiche, effettivamente rinvenute durante le indagini all’interno dello stesso magazzino. L’imputata si è lamentata altresì del diniego della richiesta della nuova escussione testimoniale del lavoratore infortunato affinché lo stesso potesse fornire spiegazioni delle contraddizioni in cui era incorso nelle precedenti deposizioni, al fine di negare la propria colpa esclusiva nella produzione dell’evento.
Le decisioni della Corte di Cassazione
Il ricorso è stato ritenuto infondato dalla Corte di Cassazione ed è stato pertanto rigettato. La sentenza della Corte d’Appello è stata ritenuta dalla suprema Corte del tutto immune dai vizi lamentati. Dalla istruttoria compiuta era emerso infatti che la scala in ferro, le cui difformità dalle prescrizioni dettate dalla normativa antinfortunistica erano risultate incontestabili, era stata trovata dall’operaio infortunatosi appoggiata su di uno scaffale, pur non facendo parte della dotazione originaria dell’azienda. Molto verosimilmente l’attrezzo di lavoro era stato lasciato dal precedente locatario nel magazzino, ove la società si era di recente trasferita. Era fuori di dubbio comunque, ha ribadito la Sez. IV, che la scala dovesse ritenersi nella disponibilità del dipendenti della società di cui l’imputato era legale rappresentante, pur potendo essi servirsi anche di scale a libro e di scale conformi alle prescrizioni di sicurezza, attesa la mancanza di espresso divieto di servirsene tramite cartelli apposti sulla stessa che ne inibissero l’uso.
“La responsabilità colposa dell’imputata”, ha quindi sostenuto la Sez. IV, “discendeva quindi dal fatto di non aver preventivamente controllato le obiettive condizioni della scala e di averne consentito l’impiego nell’azienda benché non a norma anziché eliminarla, non apparendo circostanza assolutamente imprevedibile, attesi gli evidenziati riscontri fattuali, che i dipendenti ne potessero occasionalmente far uso”. “Né era possibile escludersi”, ha quindi proseguito la suprema Corte, “il nesso di causalità tra le omissioni ascritte all’imputata e l’evento. Il fatto che l’operaio infortunatosi, pur risalendo al medesimo una condotta imprudente ed avventata (che comunque il datore di lavoro è tenuto a scongiurare in ottemperanza alle norme dì prevenzione antinfortunistica), avesse usato la prima scala esistente a portata di mano senza averne cercata un’altra più sicura per assolvere alle proprie mansioni, non integrava un comportamento anomalo od imprevedibile od ontologicamente avulso dalle incombenze allo stesso demandate nell’azienda”.
Per quanto riguarda, infine, la doglianza legata al rifiuto da parte della Corte di Appello di riascoltare il lavoratore, la suprema Corte ha concluso mettendo in evidenza che i Giudici di seconda istanza avevano ribadita l’assoluta non necessità di procedere alla nuova escussione testimoniale della parte offesa la cui deposizione già resa era stata ritenuta del tutto attendibile.
Fonti: Puntosicuro.it