sanita_2Un intervento su una recente sentenza della Corte di Cassazione con riferimento all’obbligo datoriale di assegnare il lavoratore a mansioni compatibili col suo stato di salute e alle responsabilità del medico competente. A cura di Pietro Ferrari.

Una recente sentenza della Corte di Cassazione (Cass.Pen.,Sez. 4, 9 ottobre 2014, n. 42235) bene illustra il significato dell’obbligo generale configurato nell’art. 2087 c.c. e di quello speciale definito nell’art. 18, comma 1, lett. c) del D.Lgs. 81/08.

Art. 2087.
Tutela delle condizioni di lavoro.
L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro

Articolo 18 – Obblighi del datore di lavoro e del dirigente
1. Il datore di lavoro, che esercita le attività di cui all’articolo 3, e i dirigenti, che organizzano e dirigono le stesse attività secondo le attribuzioni e competenze ad essi conferite, devono:
c) nell’affidare i compiti ai lavoratori, tenere conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e alla sicurezza;

Entrambe le previsioni di legge mostrano, con carattere di evidenza, come il datore di lavoro debba essere “sostenuto”, nell’adempimento dell’obbligo, da figure specialistiche individuate dalla norma. In primo luogo, relativamente agli aspetti sanitari e di igiene del lavoro, il medico competente.

In quell’ambito, infatti, le “misure”, le “capacità” e le “condizioni” posso essergli rese soltanto dall’attività propria e consulenziale del medico competente; prevalentemente (ma non solo) tramite l’esplicazione della sorveglianza sanitaria e l’espressione dei giudizi di idoneità.

Nel caso in esame, un lavoratore era stato vittima di un infortunio sul lavoro cui erano conseguiti postumi invalidanti che ne avevano giustificata l’adibizione come addetto alla portineria ed alla sorveglianza.
Il datore di lavoro lo aveva invece poi adibito a mansioni di imballo, gravanti sotto il duplice aspetto della movimentazione manuale dei carichi e della disergonomicità (stazione eretta prolungata).
In conseguenza di ciò il lavoratore pativa un ulteriore evento traumatico, consistente in una violenta fitta alla schiena che ne provocava l’accasciamento e il conseguente ricovero al pronto soccorso.

Il giudice di primo grado assolveva il datore di lavoro dal reato di lesioni personali colpose (art. 590 c.p.) commesso con violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro (cpv. terzo).
A seguito di impugnazione da parte del pubblico ministero la sentenza veniva riformata in appello, col riconoscimento della penale responsabilità del datore di lavoro e insieme con pronunzia di condanna al risarcimento nei confronti della parte civile.

L’imputato ricorreva per cassazione deducendo quattro motivi, tra i quali – qui – rilevano particolarmente il secondo ed il terzo:

– Con il secondo motivo assume che l’applicazione della vittima ad altra lavorazione ha avuto luogo in presenza di tutti i presupposti medici, come da documentazione prodotta.
– Con il terzo motivo si deduce che erroneamente e senza base è stata ritenuta la connessione causale tra le condotte imputate e la malattia. Non vi è prova di sforzi eccessivi per sollevare i tubi, anche perché era stato installato un carroponte.

Il giudice di legittimità, nel ritenere infondato il ricorso, evidenzia come la sentenza impugnata abbia minutamente ripercorso la vicenda oggetto del processo:
– il precedente grave infortunio del lavoratore; i rilevanti postumi;
– la conseguente assegnazione a prestazione di portineria e sorveglianza compatibile con lo stato di parziale invalidità; la successiva assegnazione, nel 2007, a mansioni di imballo;
– l’opposizione del lavoratore che segnalava i postumi invalidanti nella misura del 30%;
– la determinazione dell’azienda nell’applicazione alla indicata lavorazione sulla base di valutazione del medico aziendale, che escludeva che il lavoratore dovesse sollevare carichi rischiosi in considerazione della riorganizzazione del reparto di imballo;
– l’accertamento della Asl che determinava la inidoneità permanente alle attività che comportino la stazione eretta e la movimentazione di carichi di peso superiore ai 10 kg; la ritenuta congruità della prestazione richiesta, da parte dell’azienda, in considerazione dell’esistenza di impianto semiautomatico di imballo; la valutazione del dottor G., dirigente della Asl locale, il quale riteneva il lavoratore non idoneo alla prestazione in atto, documentata anche con fotografie delle posizioni assunte dai lavoratori; la rilevanza ponderale dei tubi da imballare e delle altre operazioni che vengono minutamente descritte, tutte ritenute impegnative; la conferma delle valutazioni da parte del G. nel corso della deposizione dibattimentale; l’apprezzamento in ordine alla attendibilità ed indipendenza delle valutazioni espresse dal tecnico; la confutazione della tesi difensiva secondo cui l’imballo era in larga misura automatica, considerando la necessità di operazioni di spinta, trazione e torsione nonché di sollevamento, sempre in posizione eretta.

Ciò che sembra apparire immediatamente, è la responsabilità del medico competente, pur tuttavia non chiamato a rispondere in sede di imputazione penale e civile.
Se da un lato è infatti configurabile una sua responsabilità per violazione dell’art. 25 -segnatamente, lett. a), b) ed m)- e 39, comma 1, D.Lgs. 81/08, dall’altro pare configurarsi il caso in cui il datore di lavoro avrebbe potuto agire in rivalsa nei confronti del medico competente. E’ infatti“sulla base di valutazione del medico aziendale” che il datore di lavoro si è determinato “nell’applicazione [del lavoratore] alla indicata lavorazione”, poi rivelatasi dannosa.
Non si può escludere, peraltro, che anche sulla base di quella valutazione il datore di lavoro “nonostante le reiterate valutazioni tecniche della Asl contrarie alla utilizzazione del lavoratore nella mansione indicata, .. non ha receduto.”.
Si è voluto rendere evidenti queste considerazioni (opinabili, come ogni considerazione) per mostrare quanto talvolta risultino “impreparati” i lavoratori vittime di infortunio o MP, e insieme anche i datori di lavoro e gli stessi servizi di prevenzione delle ASL (si richiama, a quest’ultimo proposito, come le violazioni all’art. 25 -almeno con riguardo alle lett. a) e b)- siano sanzionate con la pena alternativa).

La Suprema Corte stabilisce che “La conclusione dell’argomentazione [del giudice dell’appello] è che indebitamente il lavoratore è stato assegnato ad una prestazione incompatibile con la sua condizione e che vi è chiaro nesso causale tra l’attività svolta e l’evento lesivo, considerata la contestualità con lo sforzo sopra descritto. In tale situazione si ravvisa che si configurino tutti i profili dell’illecito contestato.
Tale apprezzamento è basato su plurime, significative acquisizioni probatorie ed è immune da vizi logici o giuridici. Esso, pertanto, non può essere sindacato nella presente sede di legittimità. Rileva che gli organi della Asl avevano motivatamente accertata l’inidoneità allo svolgimento di mansioni del genere di quella in esame. …”.

Buon lavoro

Fonti: Pietro Ferrari (Commissione salute e sicurezza sul lavoro – Filcams-Brescia), Puntosicuro.it