Una lettura dei compiti del preposto e del ruolo del datore di lavoro con riferimento alle novità e alle modifiche del D.Lgs. 81/2008 dovute al decreto-legge 146/2021 e alla successiva conversione in legge. Di chi sono le responsabilità?
Il DL 146/21, per la precisione il Capo III, e la successiva conversione in legge (che introduce diverse modifiche) presentano diverse difficoltà interpretative e attuative. Gli aspetti rilevanti non sono pochi, ma qui ci focalizzeremo sui cambiamenti apportati al ruolo di preposto (quindi a quanto previsto dall’articolo 19 del D.lgs. 81/08. A una prima lettura parrebbe che il legislatore da una parte voglia rafforzare l’aspetto sanzionatorio del citato D.Lgs., ma dall’altro intenda responsabilizzare fortemente i preposti, con questo alleggerendo (in prospettiva) la posizione penale del datore di lavoro e dei dirigenti.
Non si può non concordare sull’importanza del ruolo “centrale” del preposto sulla vigilanza in materia di salute e sicurezza sul lavoro, però non è facile interpretare bene le nuove disposizioni di legge. Per gli altri temi del Capo III del DL rimandiamo il commento ad altre occasioni.
Una prima lettura: i compiti del preposto
Una interpretazione più ampia: il ruolo del datore di lavoro
Dunque: di chi le responsabilità?
La vigilanza delle istituzioni pubbliche incaricate
Prime conclusioni
Una prima lettura: i compiti del preposto
La questione aperta dal DL riguardo ai preposti a mio avviso è tutt’altro che chiara, almeno a una prima lettura. Se noi addetti ai lavori da anni vediamo nei preposti l’unica chiave che possa garantire in azienda comportamenti coerenti con le necessità e gli obblighi in materia di salute e sicurezza sul lavoro me corrispondenti a quanto previsto dalle disposizioni legislative e aziendali, è anche vero che in giurisprudenza i preposti sono stati molto poco considerati; i “colpevoli” degli infortuni e delle malattie professionali sono quasi sempre risultati il datore di lavoro e/o i dirigenti, oppure nessuno; la seconda ipotesi spesso sottende una responsabilità della persona che ha subito il danno, responsabilità derivante da violazioni evidentissime e/o da comportamenti assolutamente imprevedibili (abnormi); oppure si intende che il danno sia derivato da eventi assolutamente imprevedibili che l’azienda non avrebbe in alcun modo potuto “controllare”.
Nelle nuove disposizioni legislative emerge la volontà di considerare con maggiore attenzione il preposto, sotto tre aspetti (per come appare nel testo):
- Il preposto “alla vigilanza” deve essere individuato dal datore di lavoro o dal dirigente; quindi lo stesso non potrà più addurre una scarsa chiarezza organizzativa rispetto agli obblighi di vigilanza stabiliti dalla legge ed attribuitigli dalla azienda. È interessante che si faccia riferimento, pur con le dovute procedure contrattuali, ad un incarico potenzialmente oneroso: il preposto potrebbe quindi ricevere un compenso per la nomina a preposto per la vigilanza in materia di sicurezza e salute sul lavoro. [1]
- Il preposto indicato dal datore di lavoro o dal dirigente, nei confronti dei lavoratori sottoposti alla sua vigilanza che violino le regole di salute e sicurezza, deve vigilare – richiamare – dare istruzioni – interrompere l’attività in attesa di risolvere la situazione.
- Il preposto, quando in difficoltà nello svolgere i compiti di cui sopra, deve chiedere il supporto dei superiori (naturalmente sospendendo eventuali attività che presentino un rischio grave, immediato e inevitabile).
Temi non nuovi, ma presentati con una nettezza e un tono imperativo ben diversi di quelli del passato. Quindi il preposto, in una azienda perfettamente regolamentata sotto il profilo della salute e della sicurezza, diventa l’ombrello ultimo e definitivo che protegge il datore di lavoro in caso di gravi infortuni o malattie provocate da comportamenti insicuri di un lavoratore. Leggendo acriticamente la risposta è affermativa ma …
Una interpretazione più ampia: il ruolo del datore di lavoro
Secondo chi scrive, gli aspetti che il datore di lavoro deve considerare per ottenere il “beneficio” sotteso alla lettera della legge sono (nell’ordine):
- Selezionare [2] e identificare esplicitamente i preposti anche tramite una chiara job description che ne chiarisca i compiti e l’ambito di competenza.
- Dotare l’azienda (partendo da una seria e completa valutazione dei rischi) di un sistema di regole (procedure e istruzioni) che permettano il controllo dei rischi residui e prevengano i comportamenti pericolosi anomali ma prevedibili.
- “Dare” ai preposti le capacità e le competenze per poter svolgere efficacemente il loro compito di vigilanza e indirizzo [3].
- Mettere a disposizione risorse umane (e talvolta tecniche) perché la vigilanza possa essere svolta efficacemente. [4]
- Stabilire le responsabilità, le gerarchie e i flussi informativi perché il preposto possa ricevere supporto quando ne ha la necessità. [5]
Dunque: di chi le responsabilità?
Se chi scrive ha ragione vale quanto segue:
per ottenere la vigilanza dai preposti nei termini richiesti, il primo a doversi attivare è il datore di lavoro. Solo a seguito di un comportamento “irreprensibile” da parte del datore di lavoro si concretizzerebbe in forma incontestabile una rilevante responsabilità a carico del preposto alla vigilanza; in caso contrario si rimanderà il tutto alle aule giudiziarie. [6]
Il termine “irreprensibile” ha una sua ragion d’essere: quale datore di lavoro o dirigente (tradotto: vertice aziendale) può sentirsi irreprensibile in materia di sicurezza sul lavoro? In un contesto così articolato e “liquido” dove è difficile stabilire una condizione di stato dell’arte o di “miglior tecnica disponibile” [7].
La vigilanza delle istituzioni pubbliche incaricate
Per prima cosa dobbiamo ricordare che lo stesso DL di cui parliamo in queste pagine amplia la “platea” di enti incaricati della vigilanzain materia di salute e sicurezza sul lavoro, inserendo l’ispettorato del lavoro fra i soggetti incaricati, ovvero attribuendo tale onere a una famiglia di ispettori sicuramente competenti sul diritto del lavoro (per le parti di competenza) ma non altrettanto sui temi della sicurezza e salute sul lavoro. Questo apre un tema interessante riguardo alla formazione di questi soggetti, ma qui non lo affronteremo. Neanche affronteremo gli obblighi attribuiti agli organi di vigilanza per le fattispecie di violazione (senza danni per le persone) elencate nell’allegato I del DL (allegato lievemente modificato in sede di conversione in Legge).
Facciamo invece un passo indietro: sino ad oggi il confronto fra aziende e tecnici della prevenzione si è sempre giocato su tematiche tecniche (per esempio idoneità dei ripari), formative (in relazione alla formazione minima obbligatoria di tutti i soggetti aziendali), o documentali (DVR, piano di emergenza, procedure, istruzioni ecc.). E gli eventuali procedimenti di sequestro [8] (in caso di rischi gravi e immediati) dovevano comunque essere convalidati da un magistrato.
Oggi le stesse persone, che hanno maturato una grandissima competenza sui temi sopra indicati (mi riferisco agli addetti dei servizi di prevenzione) si ritrovano a dover giudicare aspetti organizzativi, di capacità e di competenze “non tecniche” che la stessa azienda, pur conoscendo perfettamente sé stessa, non è in grado di valutare, quantomeno rispetto al noto requisito di “massima diligenza”. Se non accadono eventi gravi o funesti un errore di valutazione, in un senso o nell’altro, avrà poco peso, se invece accade un evento nella sfera del penale, ovviamente con una ipotesi di imperizia o negligenza del preposto, certe valutazioni saranno determinanti nel giudizio. Ciò significa, cronologicamente, il coinvolgimento (nella formazione del giudizio finale):
- In primis dell’organismo di vigilanza e del magistrato competente.
- Successivamente di chi è chiamato a decidere sulla necessità del rinvio a giudizio di una o più persone.
- Poi del giudice chiamato ad emettere il giudizio di primo grado.
- Poi ancora …
Tanti soggetti chiamati a indagare e valutare aspetti che potrebbero essere assolutamente non tecnici [9], cioè in buona parte fuori dai confini di quella che sino ad oggi erano stati la base dei giudizi sulle ipotesi di reato ex artt. 589 e 590 con violazione delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro.
Una aggiunta: questi aspetti non tecnici non sono neanche ben chiari alla controparte, avvocati difensori e consulenti di parte, per cui ci troveremo, mi immagino, allo scontro fra posizioni astratte e, in parte, preconcette. Perché solo il tempo e l’esperienza permettono di aumentare la propria capacità di giudizio su tematiche declinate in una forma sostanzialmente nuova.
Prime conclusioni
Chi scrive è entusiasta della scelta del legislatore di coinvolgere al massimo i preposti alla vigilanza sui comportamenti delle persone in materia di salute e sicurezza sul lavoro. In questo articolo si è tentato di abbozzare una serie di idee pratiche per la applicazione di quanto richiesto dal legislatore, senza nascondere che ad oggi esistono sia difficoltà interpretative, sia concrete difficoltà applicative specie sui fronti della organizzazione aziendale e delle attitudini e capacità dei preposti “individuati”. E poi esiste il ben noto tema del commitment della alta direzione, indispensabile perché gli “individuati” si sentano liberi e supportati nello svolgimento del compito formalmente attribuito.
Fonti: Puntosicuro.it, Alessandro Mazzeranghi
[1] In effetti dal punto di vista pratico l’abbinamento fra nomina esplicita, eventuale compensazione economica ed alcuni aspetti sulle capacità e competenze del preposto alla vigilanza delinea la possibilità di avere lavoratori i cui diretti superiori gerarchici NON coincidano con il preposto alla vigilanza. Possiamo augurarci che questa situazione non si verifichi per via delle ovvie complicazioni organizzative (contrasto fra due figure “superiori gerarchicamente” ad uno stesso lavoratore che operano con finalità contrastanti).
[2] Selezionare vuol dire scegliere persone con le potenzialità adeguate che, dopo un serio percorso formativo e informativo, e in virtù delle loro capacità e competenze di base, possano essere identificate come preposti alla sorveglianza in grado di svolgere le mansioni per loro previste dalla legge.
[3] Sarebbe impossibile in questa sede affrontare il tema delle competenze e capacità dei preposti, competenze e capacità che sono indispensabili per la loro individuazione da parte del datore di lavoro rispetto a quanto loro richiesto dalla legge in termini di vigilanza. Possiamo comunque già affermare che il coaching dei preposti diventa oggi un passaggio fondamentale per la loro assegnazione alla mansione di vigilanza.
[4] L’ovvia difesa di un preposto inquisito potrebbe essere: “non avevo materialmente il tempo per fare ciò che mi era chiesto in termini di vigilanza; d’altra parte la mia prestazione era valutata su altri parametri ai quali mi sentivo in dovere di dare la precedenza”. Tutto da provare in un senso o nell’altro, ma reso ancor più complesso dal fatto che la attribuzione (e accettazione) della responsabilità potrebbe essere a titolo oneroso.
[5] Qui invece c’è un problema sul comportamento di chi riceve la richiesta di aiuto da parte del preposto, che avrebbe tutto l’interesse ad evitare responsabilità personali “lavandosene le mani”.
[6] Ma attenzione! Se fossi un preposto “individuato” non dormirei sonni tranquilli perché, salvo il punto 1 dell’elenco (quello della individuazione dei preposti alla vigilanza), il livello di dettaglio per gli atri punti rimarrà indeterminato ancora per diverso tempo, in funzione del lento evolversi della giurisprudenza che non dipende dalla “lentezza della giustizia” ma dal numero, comunque relativamente modesto, di casi per cui emergerà la sentenza di primo grado (aspettare la cassazione per farsi una idea direi che è veramente improponibile)…
[7] Si tratta, come evidente, di tutti aspetti legati alle persone che a loro volta operano in un determinato contesto organizzativo e operativo, quindi assai difficili da valutare secondo criteri oggettivi. Attenzione, noi siamo abituati a ragionare secondo dottrina e giurisprudenza là dove si parla di nesso causale: dato un evento negativo verificatosi con danni a una persona, nella ipotesi che una azione o una omissione commessa da un determinato soggetto l’evento non sarebbe accaduto, tale azione od omissione (che nei fatti è avvenuta) è con – causa dell’evento negativo e la persona che la ha commessa è, anche in minima parte, responsabile dell’evento. Ora, al di là degli obblighi di legge (per esempio la previsione di un numero minimo di ore di formazione per i preposti), come posso valutare se i cinque punti citati sopra sono stati adempiuti “con la massima diligenza possibile”? Inviterei a ragionare sulla modesta efficacia delle verifiche della formazione erogata (anche solo in termini di mero apprendimento nozionistico), per capire quanto la questione possa essere sfuggente.
[8] È evidente che per una azienda economicamente sana e ben funzionante le sanzioni economiche previste per le violazioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro sono minime, mentre il sequestro di un impianto produttivo chiave può comportare, anche nell’arco di pochi giorni, un danno economico notevole.
[9] Vorrei provare ad elencarne alcuni (l’elenco non è completo): si sottintende un giudizio sulla idoneità della scelta del preposto (culpa in eligendo), sulla adeguatezza dell’organizzazione per risorse ma anche per conformazione funzionale (si pensi ai flussi informativi interni alla azienda), sulle attitudini, capacità e competenze del preposto (consideriamo anche la attitudine a gestire gli imprevisti e l’aspetto della comunicazione bottom – down ai lavoratori inadempienti). Sono cose di cui tutti ragionano da anni, ma che poche aziende hanno robustamente sviluppato nel concreto, anche per la vecchia remora che le regole (di qualunque tipo, quindi anche quelle in materia di salute e sicurezza) ostacolino il regolare fluire dell’attività lavorativa.