Dalla cattiva verifica dell’idoneità dell’appaltatore quale causa all’assunzione dell’obbligo di vigilanza quale effetto: le responsabilità aggiuntive che il committente si assume fornendo con leggerezza le sue attrezzature alle ditte.
Accade con una certa frequenza che il committente fornisca direttamente e talora in maniera improvvisata – senza passare attraverso l’adozione di particolari cautele e di strumenti giuridici ad hoc, oltre che ovviamente senza il rispetto degli obblighi previsti dall’art.72 del D.Lgs.81/08 in capo ai concedenti in uso – le sue attrezzature all’appaltatore o al lavoratore autonomo al quale abbia deciso di affidare i lavori o i servizi.
Tale comportamento è a volte originato, a monte, da una cattiva selezione dell’idoneità tecnico-professionale dell’impresa o del lavoratore autonomo, che ha poi come diretta conseguenza il fatto che questi ultimi risultino sprovvisti di mezzi e attrezzature adeguati e che quindi il committente ritenga di compensare tali carenze fornendo le proprie – senza le garanzie di cui sopra – ed assumendosi così delle responsabilità che in realtà rientrerebbero nell’area dei rischi specifici dell’appaltatore stesso (sul tema del rapporto tra verifica dell’idoneità tecnico-professionale e ingerenza del committente, si veda anche “ Ingerenza del Committente nell’esecuzione dei lavori: quando sussiste?”, pubblicato su Puntosicuro del 23 dicembre 2021 n.5075.)
In altri casi si può trattare di una condotta semplicemente caratterizzata da eccesso di familiarità con la ditta esterna, da sottovalutazione o imprudenza (di cui è un esempio il classico “prestito della scala” che ricorre spesso in giurisprudenza, di cui si dirà oltre) o ci si può imbattere in situazioni in cui, senza che la messa a disposizione all’appaltatore delle attrezzature del committente sia prevista formalmente, essa venga sostanzialmente ammessa attraverso la tolleranza di prassi che vadano in tal senso, come nel caso della prima sentenza che vedremo, in cui nel DUVRI era previsto il divieto di utilizzare le attrezzature del committente ma nei fatti la prassi concreta era di segno totalmente contrario.
Ancora, esaminando le pronunce giurisprudenziali in materia, si può distinguere tra casi in cui le responsabilità penali del committente sono legate all’aver messo a disposizione dell’appaltatore un’attrezzatura priva dei requisiti necessari ed altre ipotesi in cui invece, pur avendo quello fornito un’attrezzatura a norma, le sue responsabilità derivano dal non aver adempiuto agli obblighi automaticamente acquisiti in conseguenza dell’assunzione della “nuova” posizione di garanzia (nei confronti dei lavoratori esterni) conseguente alla fornitura di tali attrezzature.
Qualunque sia la motivazione che ha ispirato tale condotta, sta di fatto che l’effetto diretto della scelta del committente di fornire in maniera incauta le sue attrezzature all’impresa esterna senza l’utilizzo di strumenti operativi e giuridici adeguati e l’osservanza delle norme di legge è quello dell’assunzione da parte sua di obblighi ulteriori rispetto a quelli a lui assegnati dalla legge: primo fra tutti, quello di vigilanza.
Una sentenza di circa sei mesi fa ( Cassazione Penale, Sez.IV, 15 dicembre 2023 n.50095) – come anticipato – è molto istruttiva sul nesso esistente tra la fornitura delle proprie attrezzature da parte del committente e l’assunzione dell’obbligo di vigilanza.
In questo caso la Corte ha confermato la condanna di A.A. per omicidio colposo perché, quale “amministratore unico della D. montaggi Srl, aveva cagionato la morte di B.B., operaio saldatore della M. Srl , società con la quale la E. montaggi aveva stipulato un appalto per l’assemblaggio di carpenteria in ferro, da eseguirsi presso lo stabilimento della D. Montaggi Srl.”
Era accaduto che “il predetto operaio B.B., intento a svolgere le operazioni di saldatura a filo di un traliccio in acciaio del peso di 37 quintali, per effettuare le quali era necessaria la movimentazione del traliccio mediante carroponte al fine di ruotarlo su quattro lati, durante la rotazione del traliccio (che, si ripete, veniva movimentato tramite carroponte azionato con pulsantiera a filo) rimaneva schiacciato tra il traliccio sospeso e alcuni cavalletti di ferro posti alle sue spalle; detto schiacciamento aveva cagionato un gravissimo politrauma che aveva determinato la morte del B.B. pochi giorni dopo.”
All’imputato A.A. erano stati contestati, “quali profili di colpa specifica, la violazione del D.Lgs.n.81 del 2008, art.18, comma 3 bis, per non aver vigilato riguardo al corretto utilizzodelle attrezzature da parte dei lavoratori, posto che il B.B. utilizzava un carroponte in dotazione alla D. montaggi senza essere stato a ciò autorizzato né formato; nonché la violazione del D.Lgs. n.81 del 2008, art.71, comma 7, lett.a) per non aver adottato le misure necessarie affinché l’uso delle attrezzature di lavoro fosse riservato ai lavoratori allo scopo incaricati ed appositamente formati per utilizzarle.”
E, a fronte di tale quadro, “a nulla rilevava la corretta redazione del documento di valutazione dei rischi [DUVRI, n.d.r.]e la previsione dello specifico rischio di evitare che i lavoratori inesperti, estranei alla D. montaggi, utilizzassero il carroponte, poiché il A.A. era perfettamente a conoscenza di prassi contrarie praticate in azienda ed aveva, in forza della sua posizione di garanzia, l’obbligo di far sì che dette prassi non venissero praticate.”
La Cassazione ha rigettato il ricorso del committente, ritenendo che “nel caso in esame ci si trova in una tipica situazione di “rischio interferenziale”, dato dal contatto rischioso tra il personale di imprese diverse operanti nello stesso contesto aziendale che può essere fonte di ulteriori rischi per l’incolumità dei lavoratori […] che fa scattare l’operatività degli obblighi di coordinamento e cooperazione previsti dal D.Lgs.9 aprile 2008, n.81, art.26, compendiati nel cd. DUVRI (documento di valutazione del rischio interferenziale).”
Infatti, “pur essendo emerso che, in base al Documento unico di valutazione del rischio interferenze, regolarmente redatto dalla impresa D., i lavoratori di ditte appaltatrici non potevano utilizzare i macchinari D., i giudici di merito hanno rilevato che: 1) il direttore tecnico della D., D.D., aveva dichiarato che gli era già stato segnalato che il B.B. aveva utilizzato attrezzature della D. per eseguire i lavori di cui era incaricato; 2) stesse dichiarazioni erano state rese dal capo officina, C.C., che ha riferito di aver constatato che il B.B. utilizzasse, in maniera impacciata, il carroponte senza saperlo fare, e che spesso era dovuto intervenire per far completare la manovra di rotazione del pezzo; 3) ancora, le medesime dichiarazioni erano state rese da un altro operaio, E.E.; lo stesso imputato aveva riferito che una volta gli era stato segnalato l’uso del carroponte da parte del B.B. Inoltre, ha rilevato la sentenza impugnata come all’interno dell’officina in cui era avvenuto l’infortunio non erano presenti specifici cartelli di sicurezza, salvo un cartello posto all’ingresso del capannone nord, ben lontano dal luogo in cui il B.B. operava.”
Dunque “dal compendio probatorio era emersa l’esistenza di una prassi irregolareall’interno della D., in cui, a parte saltuari richiami verbali, era di fatto consentito al personale esterno l’utilizzo delle attrezzature pericolose della D.”
Pochi anni prima di tale sentenza, la messa a disposizione degli appaltatori di attrezzature non a norma è poi stata oggetto di Cassazione Penale, Sez.IV, 3 febbraio 2021 n.4092, con cui la Corte ha confermato la condanna del P.D.F. (quale datore di lavoro dell’impresa subappaltatrice G. s.a.s.) e C.A. (nella sua qualità di datore di lavoro dell’impresa affidataria E. s.r.l.) per il reato di lesioni personali colpose in danno del lavoratore M.F., dipendente della subappaltatrice.
L’infortunio si era verificato mentre quest’ultimo “era intento ad eseguire la pulizia di una benna miscelatrice collegata al veicolo Bobcat S 175”, la quale “attrezzatura era stata messa a disposizione dell’impresa subappaltatrice dall’impresa affidataria dell’appalto E. s.r.l.”.
Era così accaduto che “il lavoratore, scendendo dall’uscita centrale del mezzo, aveva appoggiato i piedi sul bordo della benna, priva della prescritta griglia di protezione; la gamba sinistra dell’operaio era scivolata all’interno della benna rimanendo agganciata dalla spirale elicoidale ancora in movimento, che ne aveva determinato la semiamputazione.”
Ciò in quanto “l’operaio, nell’uscire dall’abitacolo del Bobcat, aveva alzato la barra antiribaltamento, che avrebbe dovuto bloccare immediatamente tutti i dispositivi meccanici in movimento; il malfunzionamento del meccanismo di sicurezza, segnalato da giorni al C.A., non aveva messo in moto il sistema di blocco.”
Seppure ai soli fini civili (dal momento che il reato è risultato estinto per prescrizione), la Cassazione ha confermato le condanne dei due imputati.
Con particolare riferimento alla responsabilità del datore di lavoro dell’impresa affidataria (che qui maggiormente ci interessa), “la condotta contestata a C.A. si sostanzia tanto in una condotta attiva, ossia l’aver messo a disposizione del lavoratore un macchinario non conforme alle norme antinfortunistiche, quanto in una condotta omissiva, per avere egli omesso ogni controllo, essendo presente in cantiere in qualità di datore di lavoro dell’impresa affidataria, circa il regolare utilizzo dell’attrezzatura di lavoro.”
Per quanto attiene al primo profilo, “l’assenza di questo sistema di protezione della benna, certamente causale rispetto all’infortunio (atteso che l’operatore doveva scendere necessariamente poggiando il piede sul bordo della benna ovvero sulla griglia), è ascrivibile a titolo di colpa ad entrambi gli imputati, in primo luogo perché entrambi devono considerarsi datori di lavoro della p.o. (l’istruttoria ha dimostrato che M.F. era stato dipendente sostanzialmente sempre dal C.A., anche nei periodi in cui l’impresa era intestata al P. o a terzi, ed è emerso altresì che il C.A. fosse costantemente presente nel cantiere e desse direttive agli operai).”
Pertanto, “in tale qualità i due hanno fornito all’infortunato uno strumento di lavoro privo dei requisiti di sicurezza” e “risulta evidente che la condotta ascritta a C.A., sia pure in qualità di datore di lavoro di fatto piuttosto che come datore di lavoro dell’impresa affidataria, sia del tutto conforme a quella contestata”.
Sul tema del rapporto tra la verifica dell’idoneità tecnico-professionale dei soggetti esterni e la fornitura delle attrezzature da parte del committente, desidero illustrare qui sinteticamente ancora un paio di esempi che mostrano come anche il classico – e sottovalutato nelle sue possibili conseguenze – “prestito della scala” possa condurre il committente (professionale e non professionale) all’assunzione di responsabilità penali e civili.
Con una pronuncia della fine dell’anno scorso ( Cassazione Penale, Sez.IV, 7 novembre 2023 n.44625), la Corte ha affermato il principio secondo cui “la mala electio dell’impresa esecutrice si trasforma, in sostanza, nell’ingerenza nei lavori, posto che può determinarne lo svolgimento in condizioni di “insicurezza”, con la conseguenza dell’assunzione diretta della posizione di garanzia da parte del committente.”
In particolare la Cassazione qui ha confermato le condanne di A.A. (committente) e B.B. (datore di lavoro appaltatore) per il reato di omicidio colposo ai danni di C.C.
Al committente è stato imputato di avere fornito alla vittima una scala non idonea al tipo di lavorazione, a causa della quale egli “era caduto da un’altezza di circa tre metri, decedendo a causa delle lesioni riportate.”
La Suprema Corte ha così avvalorato l’impostazione della Corte d’Appello, la quale “ha ritenuto che il A.A., quale committente, avesse integralmente assunto su di sé l’onere di adeguata conformazione dell’ambiente di lavoro, non avendo adempiuto agli specifici obblighi sopra elencati in punto di adeguata scelta e valutazione del soggetto appaltatore; e che lo stesso soggetto committente non avesse correttamente adempiuto a tutti gli obblighi derivanti dalD.Lgs. n.81 del 2008, art.15 (applicabili al committente in virtù del rinvio compiuto nell’art.90), con specifico riferimento a quello riguardante l’eliminazione dei rischi, avendo lo stesso fornito – sulla base della valutazione di fatto compiuta dalla Corte […] – attrezzatture, con specifico riferimento alla scala utilizzata nell’esecuzione dei lavori, non idonee rispetto alle esigenze di sicurezza derivanti dalla lavorazione medesima”.
Infine, un anno prima – con Cassazione Penale, Sez.IV, 27 ottobre 2022 n.40589 – la Suprema Corte ha confermato la condanna di un committente (F.A.T.) per il reato di omicidio colposo ai danni del lavoratore D.K.
Si era verificato che “F.A.T., in qualità di proprietario di un capannone occupato da due ditte, A. Colorificio e F., aveva dato incarico a D.V. di effettuare lavori edili ed in particolare la riparazione della pluviale prospicente la parete interna divisoria fra le due ditte.”
Quindi “D.V. ed il figlio D.K. si erano recati presso il capannone e, tramite una scala presa in prestito da un dipendente della ditta A.C., erano saliti sul tetto: D.K. dall’altezza di 8,20 metri era precipitato dal colmo del tetto, impattando contro le lastre in pvc della copertura della locale officina sottostante ed era poi rovinato al suolo decedendo sul colpo.”
All’imputato, nella sua qualità di committente, è stata addebitata la “violazione degli artt.90 comma 9 Dlgs 9 aprile 2008 n.81 per aver affidato i lavori di riparazione al D.V. senza avere prima verificato l’idoneità tecnicoprofessionale dell’impresa (a D.V., datore di lavoro giudicato separatamente, erano stati contestati, quali addebiti di colpa, la violazione degli artt.96, 111 e 115 Dlg 81/2008 per non aver effettuato la valutazione del rischio e per non aver dotato il lavoratore degli idonei sistemi di protezione, quali imbracatura ed altre misure).”
La Cassazione ha confermato la condanna di F.A.T. in quanto era stato provato che “i lavori erano stati affidati in economia da F.A.T. a D.V., persona, che pur non essendo titolare di alcuna ditta, era conosciuto in paese per essere dedito alla esecuzione di lavori edili e che F.A.T., pur essendo consapevole che i lavori dovevano essere eseguiti in quota in quanto vi erano delle infiltrazioni, non si era preoccupato di verificare la capacità tecnica del commissionario.”
Fonti: Puntosicuro.it, Olympus.uniurb.it, Anna Guardavilla (Dottore in Giurisprudenza specializzata nelle tematiche normative e giurisprudenziali relative alla salute e sicurezza sul lavoro)
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