Cassazione: Caduta dal tetto del capannone. Assoluzione di un datore di lavoro e di un RSPP: tutte le cautele possibili da assumersi ex ante erano state assunte. Commento dell’avvocato Rolando Dubini.
La vicenda trattata dalla sentenza Cassazione Penale, Sez. 4, 03 marzo 2016, n. 8883 riguarda l’incidente occorso ad un lavoratore infortunato, “che peraltro era un soggetto particolarmente esperto di sicurezza sul lavoro essendo stato egli stesso nominato responsabile della sicurezza dei lavoratori della sua azienda” il quale “decide, forse per fare più in fretta, o comunque incautamente, di salire sul tetto per meglio posizionare i fili, percorre il tratto ricoperto da sottili lastre di eternit, che inevitabilmente si sfondano, e precipita al suolo”.
La sentenza è incentrata su una domanda fondamentale: “ebbene, che tipo di rimprovero può rivolgersi ad un datore di lavoro o a un responsabile aziendale per la sicurezza che ha dotato il dipendente, esperto e formato in materia di sicurezza del lavoro, di tutti i presidi antinfortunistici e della strumentazione necessaria per effettuare il lavoro in sicurezza, analogo a quello che egli era chiamato a compiere da cinque anni, rispetto a siffatto comportamento? Hanno potuto incolpevolmente il datore di lavoro e il responsabile per la sicurezza della (omissis) fare affidamento sul fatto che un soggetto così esperto non ponesse in essere il comportamento che ha cagionato l’incidente?”.
La decisione della Cassazione è di una chiarezza esemplare: “le risposte da dare a simili quesiti sono che nessun rimprovero può muoversi ad entrambi gli odierni ricorrenti in un caso siffatto, in quanto gli stessi si sono legittimamente fidati della professionalità del soggetto cui aveva affidato il lavoro da compiersi.”
La Cassazione, in tal senso, “ha reiteratamente affermato – e si ritiene di dover ribadire- che non vale a escludere la responsabilità del datore di lavoro il comportamento negligente del lavoratore infortunato che abbia dato occasione all’evento, quando questo sia da ricondurre comunque all’insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio derivante dal richiamato comportamento imprudente (cfr. ex multis questa sez. 4, n. 7364 del 14.1.2014, Scarselli, rv. 259321). Tuttavia, quello che ci occupa è proprio un caso in cui tutte le cautele possibili da assumersi ex ante erano state assunte”.
Questo giudizio è la conseguenza dell’analisi di una fattispecie riguardante “un elettricista esperto cui era stato affidato un lavoro da svolgersi attraverso un elevatore e con una serie di strumenti di protezione di cui era stato dotato. Quel lavoro – secondo quanto ricostruito da un teste esperto (tecnico del Dipartimento di Prevenzione e del Servizio di Protezione e Sicurezza degli Ambienti del Lavoro della ASL RMF) e come ha ricordato il responsabile del servizio di prevenzione e protezione della ditta committente – poteva e doveva essere posto in essere in sicurezza dall’elevatore. L’elettricista in questione, che peraltro era un soggetto particolarmente esperto di sicurezza sul lavoro essendo stato egli stesso nominato responsabile della sicurezza dei lavoratori della sua azienda, decide, forse per fare più in fretta, o comunque incautamente, di salire sul tetto per meglio posizionare i fili, percorre il tratto ricoperto da sottili lastre di eternit, che inevitabilmente si sfondano, e precipita al suolo.
Ebbene, che tipo di rimprovero può rivolgersi ad un datore di lavoro o a un responsabile aziendale per la sicurezza che ha dotato il dipendente, esperto e formato in materia di sicurezza del lavoro, di tutti i presidi antinfortunistici e della strumentazione necessaria per effettuare il lavoro in sicurezza, analogo a quello che egli era chiamato a compiere da cinque anni, rispetto a siffatto comportamento? Hanno potuto incolpevolmente il datore di lavoro e il responsabile per la sicurezza della ditta dell’infortunato fare affidamento sul fatto che un soggetto così esperto non ponesse in essere il comportamento che ha cagionato l’incidente?
Le risposte da dare a simili quesiti sono che nessun rimprovero può muoversi ad entrambi gli odierni ricorrenti in un caso siffatto, in quanto gli stessi si sono legittimamente fidati della professionalità del soggetto cui aveva affidato il lavoro da compiersi”.
Qui di seguito i principi fondamentali di questa lunga e interessantissima sentenza.
Massima
Il sistema della normativa antinfortunistica si è lentamente trasformato da un modello “iperprotettivo”, interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro che, in quanto soggetto garante era investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori (non soltanto fornendo i dispositivi di sicurezza idonei, ma anche controllando che di questi i lavoratori facessero un corretto uso, anche imponendosi contro la loro volontà), ad un modello “collaborativo” in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori (Cass. Pen. sez. 4, n. 41486 del 5.5.2015, Viotto, non mass.).
Tale principio, normativamente affermato dal Testo Unico della Sicurezza sul Lavoro di cui al D.Lgs 9.04.2008 n. 81, naturalmente non ha escluso che permanga la responsabilità del datore di lavoro, laddove la carenza dei dispositivi di sicurezza, o anche la mancata adozione degli stessi da parte del lavoratore, non può certo essere sostituita dall’affidamento sul comportamento prudente e diligente di quest’ultimo (Cass. Pen. sez. 4, n. 41486 del 5.5.2015, Viotto, non mass.).
In giurisprudenza, dal principio “dell’ontologica irrilevanza della condotta colposa del lavoratore” (che si rifà spesso all’art. 2087 del codice civile), si è passati – a seguito dell’introduzione del D. Lgs. 626/94 e, poi del T.U. 81/2008 – al concetto di “area di rischio” (cfr. sez. 4, n. 36257 del 1.7.2014, rv. 260294; sez. 4, n. 43168 del 17.6.2014, rv. 260947; sez. 4, n. 21587 del 23.3.2007, rv. 236721) che il datore di lavoro è chiamato a valutare in via preventiva (Cass. Pen. sez. 4, n. 41486 del 5.5.2015, Viotto, non mass.). Strettamente connessa all’area di rischio che l’imprenditore è tenuto a dichiarare nel DVR, si sono, perciò, andati ad individuare i criteri che consentissero di stabilire se la condotta del lavoratore dovesse risultare appartenente o estranea al processo produttivo o alle mansioni di sua specifica competenza. Si è dunque affermato il concetto di comportamento “esorbitante”, diverso da quello “abnorme” del lavoratore. Il primo riguarda quelle condotte che fuoriescono dall’ambito delle mansioni, ordini, disposizioni impartiti dal datore di lavoro o di chi ne fa le veci, nell’ambito del contesto lavorativo, il secondo, quello, abnorme, già costantemente delineato dalla giurisprudenza di questa Corte di legittimità, si riferisce a quelle condotte poste in essere in maniera imprevedibile dal prestatore di lavoro al di fuori del contesto lavorativo, cioè, che nulla hanno a che vedere con l’attività svolta. La recente normativa (T.U. 2008/81) impone anche ai lavoratori di attenersi alle specifiche disposizioni cautelari e comunque di agire con diligenza, prudenza e perizia. Le tendenze giurisprudenziali si dirigono anch’esse verso una maggiore considerazione della responsabilità dei lavoratori (c.d. “principio di autoresponsabilità del lavoratore”). In buona sostanza, si abbandona il criterio esterno delle mansioni e “si sostituisce con il parametro della prevedibilità intesa come dominabilità umana del fattore causale” (Cass. Pen. sez. 4, n. 41486 del 5.5.2015, Viotto, non mass.). Il datore di lavoro non ha più, dunque, un obbligo di vigilanza assoluta rispetto al lavoratore, come in passato, ma una volta che ha fornito tutti i mezzi idonei alla prevenzione ed ha adempiuto a tutte le obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia, egli non risponderà dell’evento derivante da una condotta imprevedibilmente colposa del lavoratore. Questa Corte Suprema ha reiteratamente affermato – e si ritiene di dover ribadire- che non vale a escludere la responsabilità del datore di lavoro il comportamento negligente del lavoratore infortunato che abbia dato occasione all’evento, quando questo sia da ricondurre comunque all’insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio derivante dal richiamato comportamento imprudente (cfr. ex multis questa sez. 4, n. 7364 del 14.1.2014, Scarselli, rv. 259321). Tuttavia, quello che ci occupa è proprio un caso in cui tutte le cautele possibili da assumersi ex ante erano state assunte dal datore di lavoro e per quanto di competenza dal Responsabile del Servizio di Prevenzione e protezione, imputato.
Il giorno dei fatti il dipendente infortunato della ditta ove lavorava da 5 anni con la qualifica di elettricista manutentore, si è recato su incarico della propria azienda presso un capannone della azienda cliente ove doveva, all’esterno, montare dei faretti; qui lo stesso era salito, a mezzo di un elevatore oleodinamico (trattasi del cestello con braccio meccanico che porta gli operai nelle parti alte ove si deve operare) messogli a disposizione dalla Omissis, sopra il tetto; una volta sul tetto il (omissis) ha camminato sopra delle lastre di fibrocemento ivi presenti – poste ad unire i cordoli di cemento che costituiscono l’ossatura del tetto – che cedendo ne hanno provocato la sua caduta, da un’altezza di circa 6/7 metri, che ha prodotto le gravi lesioni indicate nel capo a) di imputazione. In particolare, dalle dichiarazioni rese dal un teste ed anche dal responsabile per la sicurezza della azienda dell’infortunato, è emerso che il lavoratore infortunato si era recato presso la ditta cliente su incarico del suo datore di lavoro, amministratore unico della ditta di cui era dipendente in quanto doveva fare un sopralluogo in relazione a dei lavori di manutenzione ed installazioni di fari sul capannone ivi presente.
In questa occasione, due operai, tra cui l’infortunato, erano saliti sull’elevatore per effettuare una ricognizione sui lavori che dovevano essere realizzati.
Al riguardo vi è una differenza tra il racconto dei due in quanto, a detta dell’infortunato, i due salivano anche sul tetto passando sopra quelle lastre che il giorno dopo sarebbero cedute provocando l’infortunio per cui è processo; diversamente a detta dell’altro operaio, lui saliva sul tetto per altri motivi (doveva controllare i condizionatori), ma senza camminare sulle lastre restando nei cordoli di cemento.
Correttamente, nel caso di specie, il giudice di primo grado aveva individuato come punto centrale del thema decidendi, nelle diverse versioni ascoltate dai testi, quello di capire la necessità o meno per l’infortunato, di salire su quel tetto. E di comprendere se avesse detto il vero l’elettricista, che poi era caduto sfondando il tetto, quando aveva riferito che nel sopralluogo del giorno prima fatto con il collega si era capito che era necessario fare i lavori salendo sul tetto e che di questa esigenza ne aveva parlato con il responsabile del servizio prevenzione e protezione dei lavoratori della ditta. L’infortunato aveva aggiunto, poi, che l’elevatore doveva servire solo a portarlo sul tetto dal quale avrebbe dovuto svolgere tutti i lavori.
Ebbene, il giudice di primo grado, con motivazione assolutamente logica, aveva, però, rilevato che tale ricostruzione dei fatti risultava dalle sole dichiarazioni della parte lesa, mentre ad una soluzione diversa portavano le altre testimonianze e la logica dei luoghi. Innanzitutto, veniva posto il rilievo come il RSPP avesse indicato che, dovendo i lavori avere ad oggetto l’installazione di faretti da apporre nella parte frontale – perimetrica esterna – del capannone, non era possibile svolgere gli stessi dal tetto ma era necessario, come verificato anche in loco, usare unicamente l’elevatore.
Anche la presa della corrente alla quale collegare questi faretti era poi presente sempre in questa parte esterna del capannone, per cui era assolutamente verosimile che tutto il lavoro potesse e dovesse essere effettuato a mezzo dell’elevatore messo a disposizione, a mezzo anche di un operatore, dal una ditta specializzata. Per quanto riguarda i fili si era stabilito che gli stessi sarebbero stati posati sul tetto dall’elevatore dietro il muretto presente nella parte periferica del capannone. In ordine alla possibilità che i fili potessero essere collocati dall’elevatore e senza salire sul tetto – ricordava ancora il giudice di primo grado – si era espresso anche l’ispettore della ASL, (omissis) intervenuto sul posto nella immediatezza dei fatti, che aveva indicato come l’impianto interessasse la parte perimetrica del capannone e come, per la sua posa in opera, fosse necessario iniziare dalla parte bassa dell’edificio, per poi salire in quota. Aveva poi aggiunto che per svolgere quei lavori era necessario e sufficiente usare l’elevatore oleodinamico con piattaforma che, in effetti, era presente sul posto.
Dunque il giudice di primo grado aveva anche ricordato come l’ispettore della ASL avesse precisato specificamente che anche la canalizzazione dei fili poteva avvenire dall’elevatore senza necessità di salire sul tetto. Inoltre, la corrente doveva essere presa da una parte esterna del fabbricato, sempre accessibile a mezzo dell’elevatore messo a disposizione da ditta specializzata e che rispettava gli standard di sicurezza anche in relazione al lavoro da effettuare.
La Corte d’Appello che aveva ribaltato la decisione di primo grado condannando gli imputati ha effettivamente omessa o comunque travisata la valutazione di una prima prova decisiva: la possibilità che tutte le operazioni fossero svolte dall’elevatore Manitou di cui l’operaio era dotato e che tale modalità era quella concordata con l’imputato RSPP. Dunque gli imputati avevano scelto di far eseguire il lavoro a bordo dell’elevatore, mettendo a disposizione tutte le necessarie attrezzature ed impartendo le direttive organizzative e le precise modalità con cui svolgere il lavoro.
Era da prevedersi che un operaio dotato di siffatta qualificazione ponesse in essere un comportamento del genere?
Sul punto va ricordato che, come affermato nella recente sentenza delle Sezioni Unite n. 38343/2014 sul c.d. caso Thyssenkrupp, in tema di colpa, la necessaria prevedibilità dell’evento – anche sotto il profilo causale – non può riguardare la configurazione dello specifico fatto in tutte le sue più minute articolazioni, ma deve mantenere un certo grado di categorialità, nel senso che deve riferirsi alla classe di eventi in cui si colloca quello oggetto del processo (Cass. Sez. Un., n. 38343 del 24.4.2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri, rv. 261103 nella cui motivazione la Corte ha precisato che, ai fini della imputazione soggettiva dell’evento, il giudizio di prevedibilità deve essere formulato facendo riferimento alla concreta capacità dell’agente di uniformarsi alla regola, valutando le sue specifiche qualità personali).
Inoltre, è stato precisato che nel reato colposo omissivo improprio, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto (Cass. Sez. Un., n. 38343 del 24.4.2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri, rv. 261103; conf. sez. 4, n. 49707 del 4.11.2014, Incorcaia ed altro, rv. 263284; sez. 4, n. 22378 del 19.3.2015, PG in proc. Volcan ed altro, rv. 263494).
Ebbene, la risposta in termini di possibile prevedibilità dell’evento non può che essere che il comportamento posto in essere dall’operaio infortunato non era azoicamente (e pienamente) prevedibile.
Il datore di lavoro non ha più, dunque, un obbligo di vigilanza assoluta rispetto al lavoratore, come in passato, ma una volta che ha fornito tutti i mezzi idonei alla prevenzione ed ha adempiuto a tutte le obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia, egli non risponderà dell’evento derivante da una condotta imprevedibilmente colposa del lavoratore. Questi principi si attagliano specificamente al caso di specie, essendo rimaste provate non solo la valutazione preventiva del rischio derivante dallo svolgimento in quota dei lavori di sostituzione dei faretti e di posizionamento dei fili, ma anche la concreta dotazione al lavoratore, nel frangente dell’Infortunio, degli strumenti idonei ad effettuare tali tipi di lavoro in sicurezza. Ne deriva, l’assenza di violazione della norma cautelare che, idonea forse, ad influire sotto il profilo della tipicità oggettiva del reato, lo è certamente sotto il profilo soggettivo dell’assenza di colpa.
Rolando Dubini, avvocato in Milano
Fonti: Olympus.uniurb.it, Puntosicuro.it