Perché l’individuazione di un soggetto come preposto non esclude quella di un suo superiore o subordinato (o più di uno) come preposto e come si distribuiscono gli obblighi e le responsabilità penali nel caso del “preposto del preposto”.

All’atto dell’identificazione dei preposti all’interno di un’organizzazione, a volte mi capita di sentire obiettare che il tale o tal altro soggetto non può essere ritenuto – e quindi qualificato – preposto (pur rientrando pienamente nella relativa definizione) in quanto, nell’ambito della scala gerarchica, vi è già un altro livello di preposizione ai sensi del D.Lgs.81/08 sotto di lui o sopra di lui.

In pratica, in quei casi accade che l’obiezione – o anche solo la perplessità – consista in qualcosa del seguente tenore: “il tale soggetto non può essere anche lui preposto perché ha già sopra di sé o sotto di sé un soggetto che è a tutti gli effetti un preposto” oppure “lì c’è già “il preposto” che è Tizio e quindi Caio non può esserlo (pur rientrando nella relativa definizione)”.

Questo modo di ragionare non ha senso giuridico in quanto non tiene conto di un elemento fondamentale: l’individuazione dei preposti, esattamente come quella dei dirigenti per i quali valgono le stesse considerazioni, avviene sulla base di come è conformata la ripartizione organizzativa aziendale e quindi, semplicemente, sulla base dei poteri e delle competenze in essere.

E dunque, tutti i soggetti che, in virtù di tale ripartizione organizzativa, rientrano nella definizione di “dirigente” ai sensi dell’art.2 D.Lgs.81/08, saranno qualificati tali; allo stesso modo, tutti coloro che rientrano nella definizione di “preposto” ai sensi della relativa definizione saranno individuati come preposti (a meno di modifiche nell’organizzazione stessa).

Possono esistere dunque – senza che in ciò risieda alcuna contraddizione – diversi livelli di dirigenza ai sensi del D.Lgs.81/08 così come diversi livelli di preposizione, dal momento che, come si è detto, il dirigente e il preposto non sono altro che figure “in valore relativo”, generate dalla ripartizione organizzativa aziendale.

In buona sostanza, se nel guardare ad un’azienda partiamo dalla base della scala gerarchica aziendale, considerando lavoratori tutti coloro che rientrano nella relativa definizione (e che non sovrintendono all’attività neanche di una persona esercitando poteri gerarchici) e, a questo punto, saliamo fino ad “incontrare” il primo soggetto che organizza l’attività lavorativa e garantisce la vigilanza esercitando poteri gestionali e gerarchici (dirigente), allora nulla osta al fatto che tutti i soggetti collocati nel mezzo (tra i lavoratori e i/il dirigenti/e) che esercitano poteri gerarchici e di coordinamento nei confronti di almeno una persona, siano preposti (a patto ovviamente che rientrino nella relativa definizione).

Solo a titolo di esempio, potremo così avere, in un’azienda chimica, la coesistenza del caporeparto, del capoturno, del lavoratore che sostituisce il capoturno quando non c’è (il quale ultimo, nell’ambito di quei turni di sostituzione è preposto e deve essere formato come tale) e così via.

E ancora, in un cantiere potremo trovare il capocantiere, il caposquadra etc.

Tale ricostruzione non pone alcuna particolare problematicità sotto il profilo dell’inquadramento e, successivamente, della fotografia dei ruoli che deve essere effettuata tramite lo strumento dell’individuazione formale.

Un po’ più complesso invece – come sempre quando sussistono più posizioni di garanzia – è il tema della distribuzione degli obblighi prevenzionistici tra tali soggetti e, conseguentemente, delle responsabilità penali in caso di infortunio o malattia professionale.

Qui ci vengono in soccorso i criteri forniti dal Testo Unico.

Nella distribuzione delle incombenze tra i preposti, infatti, occorrerà applicare il criterio previsto dal combinato disposto delle seguenti norme contenute nel D.Lgs.81/08:

1) Art.2 c.1 lett.e), che definisce il preposto come “persona che, in ragione delle competenze professionali e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell’incarico conferitogli, sovrintende alla attività lavorativa e garantisce l’attuazione delle direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori ed esercitando un funzionale potere di iniziativa”;

2) Art.19 (“obblighi del preposto”),che prevede – nel suo incipit – che “i preposti, secondo le loro attribuzioni e competenze, devono: …”;

3) Art.56 (“sanzioni per il preposto”),ai sensi del quale, “con riferimento a tutte le disposizioni del presente decreto, i preposti, nei limiti delle proprie attribuzioni e competenze, sono puniti: …”.

Ciascun preposto quindi, all’interno di una data organizzazione, risponderà nei limiti del proprio incarico e dei propri poteri nonché sulla base di ciò che gli compete e – al contempo – di ciò su cui deve essere competente (per formazione, esperienza, anzianità lavorativa etc.).
Facciamo un paio di esempi concreti tratti da due casi giurisprudenziali legati ad infortuni occorsi rispettivamente negli spazi confinati (il primo) e nell’ambito dei lavori in quota (il secondo).

Con Cassazione Penale, Sez.IV, 14 marzo 2022 n.8423, la Suprema Corte ha confermato la responsabilità del capocantiere V.C. per il reato di omicidio colposo in danno del lavoratore M.V., “dipendente della ditta “Nuova L. s.r.l.”, che aveva avuto in appalto lavori di manutenzione dall’E., all’interno di una centrale elettrica”.

In particolare, la vittima, “che era all’interno della parte alta del macchinario riscaldatore e che era – sì – munita di casco protettivo e di maschera antipolvere ma non era fornita di maschera antigas e nemmeno di cintura di sicurezza (dotazioni che però erano espressamente prescritte dal P.O.S.) […] dopo avere avvertito un malore a causa della mancanza d’aria”, è precipitata “da un’altezza superiore a due metri”, decedendo dopo quindici giorni.

I Giudici di merito avevano accertato che “il rischio da “ambiente confinato” era espressamente previsto nel P.O.S., che ciononostante M.V. non era stato sottoposto a visita medica per valutare la idoneità a svolgere lavori in ambienti confinati, che non aveva seguito un corso di formazione specifico per la peculiare attività lavorativa che doveva svolgere, che non era stato munito di tutte le dotazioni di sicurezza necessarie (maschera antigas e cintura di sicurezza) e che non era ancorato ad un punto fisso.”

La Cassazione ha rigettato il ricorso del V.C. – confermandone la condanna – per “non avere l’odierno ricorrente, nella qualifica pacificamente rivestita di capo cantiere, controllato che il lavoratore dipendente M.V. fosse idoneo e preparato per l’attività rischiosa da svolgere in ambienti confinati e che fosse provvisto dei necessari mezzi di protezione individuale (mascherina con filtro specifico e cintura di sicurezza ancorata a punto fisso, che non sono stati trovati sul luogo dopo il fatto né risultano essere stati forniti), la cui assenza è stata riconosciuta in diretta correlazione causale con l’incidente mortale”.

La sentenza riferisce che, in posizione subordinata al capocantiere V.C., vi era anche un altro preposto, ovvero il caposquadra C.I., il quale aveva sì posto in essere un comportamento inadeguato ma lo aveva fatto in quanto non aveva ricevuto le necessarie direttive dal V.C. stesso quale suo superiore.

La Cassazione specifica infatti che “i dispositivi di sicurezza venivano forniti ai lavoratori da C.I., che a sua volta riceveva le istruzioni e le disposizioni da V.C., il quale non aveva fornito al caposquadra C.I., considerato ulteriore preposto ma subordinato al capocantiere V.C., le opportune direttive onde verificare, prima dell’inizio dell’attività lavorative del riscaldatore, che all’interno vi fosse sufficiente areazione ed ossigenazione, come previsto non solo dalla legge ma anche espressamente dal P.O.S.”.

Molto interessante – sempre sotto il profilo della distribuzione delle responsabilità tra vari preposti aventi incarichi diversi in azienda – è Cassazione Penale, Sez.IV, 18 luglio 2019 n.31863, con cui la Corte ha confermato la condanna di A.A. e P.F. per il reato di lesioni colpose in danno di EB.E.

Agli imputati era stato contestato di avere, “in cooperazione colposa fra loro, A.A., in qualità di preposto e responsabile progetti della soc. M. Italia s.p.a.; P.F. in qualità di preposto e responsabile produzione della soc. M. Italia s.p.a., cagionato al predetto dipendente lesioni personali gravi” allorché “la persona offesa, nel piazzale dell’opificio industriale della società, provvedeva ad installare alcuni cartelli di segnalazione, attività che comportava una lavorazione in quota.”

Più nello specifico, il lavoratore, “per compiere tale operazione, prendeva posto su un carrello elevatore, condotto da un collega di lavoro e, mentre stazionava su tale carrello, perdeva l’equilibrio, cadendo e riportando lesioni alla testa.”

Le responsabilità a carico di A.A. e P.F. sono “riconducibili al mancato esercizio della dovuta sorveglianza sulle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa del dipendente infortunato, in violazione dell’art.19 d.lgs. 81/2008.”

Ed “in particolare, si addebita ai ricorrenti di non avere accertato che EB.E. operasse nel rispetto della normativa antinfortunistica e che utilizzasse gli strumenti posti a sua disposizione dall’azienda.”

Per quanto attiene alle posizioni di garanzia degli imputati, la Cassazione precisa che “i Giudici di merito hanno evidenziato che i ricorrenti rivestivano entrambi la qualifica di preposti” e che tale “dato si desume dall’organigramma della sicurezza M. prodotto dalla stessa difesa, in cui risultano indicati, per il reparto produzione a cui era addetta la persona offesa, quali responsabili della funzione, i nominativi di P.F. ed A.A.”.

La Corte sottolinea che “il preposto ha la funzione di verificare e garantire il rispetto delle regole di cautela nell’esecuzione delle prestazioni lavorative e la sua responsabilità può essere esclusa, per causa sopravvenuta, solo in virtù di un comportamento del lavoratore avente i caratteri dell’eccezionalità, dell’abnormità e, comunque, dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive organizzative ricevute, connotandosi come del tutto imprevedibile”.

Come detto, oltre a P.F., “i giudici di merito hanno riconosciuto la qualifica di preposto anche in capo all’imputato A.A. desumendo tale posizione dall’esercizio di fatto di funzioni tipiche” ed “hanno evidenziato le ragioni per le quali hanno ritenuto di attribuire al ricorrente la suddetta qualifica, rilevando che l’A.A. era responsabile della funzione nel reparto produzione a cui era addetto il lavoratore e che aveva provveduto a realizzare corsi di formazione nell’ambito del reparto, riguardanti l’uso della cesta per le lavorazioni in quota.”

A ciò si aggiunga, infine, che “si desume dalle stesse affermazioni dell’imputato che il lavoro di sostituzione della cartellonistica fu da lui commissionato al dipendente, sia pure in una forma implicita”, dal momento che A.A. “ha affermato che i cartelli da installare erano stati da lui ordinati in copisteria e lasciati sulla scrivania del suo ufficio affinché la persona offesa li prendesse.”


Scarica le sentenze di riferimento:

Cassazione Penale Sezione IV – Sentenza n. 31863 del 18 luglio 2019 – Infortunio in quota durante il posizionamento di cartelli con l’utilizzo di un carrello elevatore. Responsabilità dei preposti per omessa sorveglianza sulle attività.

Corte di Cassazione Penale Sezione IV – Sentenza n. 8423 del 14 marzo 2022 (u.p. 12 novembre 2021) – Pres. Ciampi – Est. Cenci – Ric. V.C.. – Risponde il capocantiere, quale preposto, per l’infortunio occorso a un lavoratore in un ambiente confinato se non ha verificato che fosse stato sottoposto a visita medica di idoneità alla mansione e che fosse stato formato e fornito dei necessari dpi.

Fonti: olympus.uniurb.it, Puntosicuro.it, Anna Guardavilla (Dottore in Giurisprudenza specializzata nelle tematiche normative e giurisprudenziali relative alla salute e sicurezza sul lavoro)