Una sentenza della Corte di Cassazione si sofferma sullo schiacciamento di una mano di un lavoratore durante la pulizia di un macchinario in movimento. I problemi del fermo macchina e la scorrettezza delle prassi aziendali.
Come abbiamo visto negli articoli di PuntoSicuro e nelle dinamiche degli incidenti presentanti nella rubrica “ Imparare dagli errori”, molti infortuni gravi e mortali avvenuti in questi anni sono causati dall’utilizzo di macchine e attrezzature di lavoro non sicure. Attrezzature che diventano ancora più a rischio quando vengono pulite o quando viene fatta la necessaria manutenzione.
E riguardo alla presenza nei luoghi di lavori di attrezzature non conformi e di macchine non sicure, diverse sentenze della Corte di Cassazione – ad esempio la sentenza n. 42288 del 15 settembre 2017 – si sono soffermate in questi sul tema delle responsabilità.
È il caso anche di una recente sentenza della Cassazione – la Sentenza n. 8946 del 01 marzo 2019 – che ha riguardato il caso dello schiacciamento di una mano di un lavoratore durante la pulizia di un macchinario in movimento.
Le indicazioni della Cassazione
La ricostruzione dell’evento
Nella pronuncia della Cassazione si indica che la Corte di Appello di Brescia ha confermato la pronuncia di condanna emessa dal Tribunale di Mantova nei confronti di F.L. – in relazione al reato di cui all’art. 590, commi 2 e 3, e 583, comma 1 n. 1, cod. pen. – commesso il 28 marzo 2012.
In particolare all’imputato si era contestato, in qualità di datore di lavoro ed amministratore delegato della XXX s.p.a., “di aver cagionato per colpa al lavoratore H.M.M. un trauma da schiacciamento dell’arto superiore per non aver messo a disposizione dei lavoratori macchine conformi alle disposizioni legislative e regolamentari di recepimento delle direttive comunitarie di prodotto e per non aver adottato le misure tecniche ed organizzative atte ad impedire che il lavoratore effettuasse la pulizia del macchinario con gli elementi in moto”.
Questa la ricostruzione del fatto nelle fasi di merito (il processo di primo grado e quello di appello): “il lavoratore era addetto ad un macchinario consistente nella linea di produzione di una guaina che, per essere confezionata, passa nelle diverse fasi di lavorazione su un certo numero di rulli disposti su due piani per essere infine confezionata in rotoli; per evitare che la guaina, una volta confezionata nei rotoli, si incolli, essa passa in una parte di macchinario in cui è cosparsa di talco; quando il talco viene rilasciato in eccesso, può capitare che sui rulli, ed in particolare su un rullo detto ‘ballerino’ perché si sposta per tenere in costante tensione la guaina, si formino incrostazioni o grumi che devono essere rimossi per non danneggiare il prodotto”.
E il lavoratore, “constatata la presenza sul rullo ‘ballerino’ di grumi di talco, aveva preso una scaletta a due gradini, vi era salito ed aveva cercato di rimuoverli con un apposito attrezzo metallico; non riuscendovi, si era aiutato con la mano sinistra protesa sul rullo in movimento, cosicché la mano era rimasta intrappolata tra il rullo e la guaina”.
I motivi del ricorso
Nella sentenza si indica che F.L. ricorre per cassazione con un primo motivo, “per vizio di motivazione e travisamento della prova nel punto in cui la Corte di Appello ha argomentato in ordine alla sussistenza della prassi aziendale di eseguire operazioni di pulizia sul rullo dell’impianto di produzione con la macchina in movimento”.
Infatti secondo il ricorrente, “vi è difformità tra i risultati probatori derivanti dalle dichiarazioni dei testi B. e F. e quelli che ne hanno tratto i giudici in quanto tali dichiarazioni, non considerate nella loro completezza, avevano introdotto nel giudizio la prova che non sussistesse la predetta prassi e che, fermando la macchina, non si sarebbero prodotti danni a livello di produzione; dalle dichiarazioni del teste B. era inoltre, emerso che le operazioni di pulizia si eseguivano con un raschiettino con un manico di m.1,20, diverso da quello usato dal lavoratore”.
Il secondo motivo si sofferma sui dubbi avanzati dalla Corte territoriale in merito “alla piena credibilità della testimonianza di F.. Il teste aveva dichiarato che le operazioni di pulizia si facevano con la macchina ferma e che i lavoratori erano stati istruiti ad eseguire la pulizia dei rulli con la macchina ferma, ma la sua deposizione è stata ritenuta contrastante con il quadro probatorio sebbene solo il lavoratore infortunato avesse dichiarato di aver sempre rimosso i depositi di talco con la macchina in movimento”.
Infine nel terzo motivo si deduce “omessa valutazione delle dichiarazioni del teste G.S. in ordine alle prescrizioni impartite ai lavoratori. Solo l’H.M.M. aveva dichiarato che nessuno gli avesse comunicato che la pulizia dovesse essere fatta a macchina ferma, mentre tutti i lavoratori erano a conoscenza che le operazioni sulle macchinedovessero avvenire a macchine ferme ed il teste G.S. aveva ricordato l’emissione di circolari in tal senso, con avvisi affissi in bacheca e consegnati ai lavoratori. Il teste aveva riconosciuto nella documentazione prodotta dalla difesa le circolari in questione, ma la Corte ne ha omesso ogni valutazione”.
Le indicazioni della Cassazione
La Cassazione indica innanzitutto che il primo motivo di ricorso è infondato.
A questo proposito si indica che i motivi di ricorso tendono ad ottenere una valutazione alternativa del fatto, “ma la Corte territoriale aveva fornito esplicita replica, attribuendo piena credibilità al lavoratore infortunato”.
In particolare – continua la sentenza – la Corte “aveva rimarcato la precisione della deposizione dell’H.M.M. in merito al fatto che, in azienda, si dicesse che ogni fermo macchina sarebbe costato alla società 300 euro ed il riscontro a ciò fornito proprio dal teste B., capo turno, il quale, pur avendo negato che vi fossero precise disposizioni in tal senso, aveva ricordato che il fermo macchina costava all’azienda 600 euro ad ora più o meno, cosicché la direttiva generale era quella di fermare la linea di produzione il meno possibile”.
Inoltre il teste F. “aveva aggiunto che l’arresto dell’impianto a lavorazione in corso produceva rotoli difettosi che sarebbero stati venduti come di seconda scelta”. E la Corte aveva preso in esame le dichiarazioni del teste B., riproposte nel ricorso, evidenziandone tuttavia “la contraddittorietà”, ed aveva “ritenuto inattendibile la testimonianza di F. circa la corretta prassi aziendale in ragione del ruolo di responsabile del servizio di protezione e prevenzione da lui rivestito, sottolineando che in ogni caso questo stesso testimone aveva riferito che le macchine si fermavano in un momento ben particolare in modo da non generare rotoli di scarto”.
Inoltre contrariamente a quanto indicato nel ricorso, “sono state esaminate criticamente anche le disposizioni scritte consegnate ai lavoratori”, riconoscendo tuttavia “rilievo preminente all’effettiva prassi aziendale, nel pieno rispetto del criterio interpretativo consolidato nella giurisprudenza di legittimità secondo il quale è obbligo del ‘datore di lavoro dominare ed evitare l’instaurarsi da parte degli stessi destinatari delle direttive di sicurezza di prassi di lavoro non corrette e, per tale ragione, foriere di pericoli’ (Sez. 4, n. 10265 del 17/01/2017, Meda, Rv. 26925501; Sez. 4, n. 22813 del 21/04/2015, Palazzolo, Rv. 26349701; Sez. 4, n. 18638 del 16/01/2004, Policarpo, Rv. 22834401)”.
Riguardo al travisamento delle prove il motivo di ricorso si rivela “inammissibile perché generico”. E si premette che il vizio di travisamento della prova, “nel caso in cui i giudici delle due fasi di merito siano pervenuti a decisione conforme, può essere dedotto solo nel caso in cui il giudice di appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice (Sez. 4, n. 5615 del 13/11/2013, dep.2014, Nicoli, Rv. 25843201) ovvero qualora entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forme di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili (ossia in assenza di alcun discrezionale apprezzamento di merito), il riscontro della persistente infedeltà delle motivazioni dettate in entrambe le decisioni di merito (Sez. 4, n. 44765 del 22/10/2013, Buonfine, Rv. 25683701)”.
La sentenza, che vi invitiamo a leggere integralmente, indica poi che il ricorso che, in applicazione della nuova formulazione dell’art. 606, comma 1, lett. e) cod.proc.pen. “intenda far valere il vizio di ‘travisamento della prova’ (consistente nell’utilizzazione di un’informazione inesistente o nell’emissione della valutazione di una prova, accomunate dalla necessità che il dato probatorio, travisato od omesso, abbia il carattere della decisività nell’ambito dell’apparato motivazionale sottoposto a critica)” deve, a pena di inammissibilità (Sez. 6, n. 45036 del 02/12/2010, Damiano, Rv. 24903501), fornire alcuni elementi specifici (indicati nella sentenza).
Ma “la generica asserzione contenuta nel ricorso, priva dei suindicati elementi specificativi, non supera il vaglio di ammissibilità”.
E, in definitiva, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Scarica la sentenza da cui è tratto l’articolo:
Fonti: olympus.uniurb.it, Puntosicuro.it