Il numero aperto dei dispositivi di protezione individuale secondo l’art. 2087 c.c.: il caso degli indumenti di lavoro. Un commento alla sentenza della Cassazione civile n. 16749 del 21 giugno 2019. A cura di Arnaldo Maria Manfredi.
I dispositivi di protezione individuale (di seguito DPI) rappresentano l’ultima barriera tra il lavoratore e rischi residui non eliminabili con il ricorso a misure tecniche, progettuali, organizzative e procedurali.
Essi sono disciplinati in via generale dagli artt. 74 e seguenti del d.lgs. 81/2008 (d’ora in poi TUSL), mentre l’Allegato VIII fornisce “indicazioni di carattere generale relative a protezioni speciali” (ad es. l’elenco dei rischi da cui protegge il DPI e la menzione dei rischi aggiuntivi che si accompagnano all’utilizzo del medesimo).
Il Decreto ministeriale 2/5/2001, emesso durante la vigenza del d.lgs. 626/1994, detta invece i “Criteri per l’individuazione e l’uso dei dispositivi di protezione individuale (DPI)”, inclusa la relativa manutenzione.
La disciplina è stata da ultimo integrata “inoltre” con il riferimento alle “finalità” al “campo di applicazione” e alle “definizioni” di cui “agli articoli 1, 2 e 3, paragrafo 1, numero 1), del regolamento (UE) n. 2016/425” relativo ai requisiti per la progettazione, fabbricazione e commercializzazione dei DPI (cfr. art. 74 co. 1 TUSL, in fine).
Se pure è immaginabile come le previsioni relative ai DPI obbediscano a regole tecniche volte a garantire che essi possano assolvere con efficacia alla propria funzione, l’interprete dovrebbe rimanere consapevole del rischio di rimanere “vittima” del tecnicismo, che da solo non è sufficiente a garantire il rispetto delle finalità di tutela della salute del lavoratore cui la regolamentazione di detti dispositivi è preordinata.
Il rischio cui si è accennato, e i suoi effetti, sono stati contemplati dalla pronuncia portata in commento (la sentenza della Cassazione n. 16749 del 21/6/2019) – e dalle successive 17132, 17354, 20206, 20207, 20208 – ricca di riferimenti normativi e giurisprudenziali, che risulta di particolare interesse in quanto costituisce applicazione dei principi guida della materia.
La Suprema Corte segnala come la nozione di DPI (oggi rinvenibile nell’art. 74, I co. TUSL) non solo sia suscettibile di abbracciare, letteralmente, “qualsiasi attrezzatura” destinata a proteggere il lavoratore “contro uno o più rischi”, ma che una lettura della norma alla luce della tutela della salute umana di cui all’art. 32 Cost. induce a un’interpretazione estensiva della sua portata applicativa, in coerenza con gli obblighi di garanzia posti in capo al datore di lavoro dall’art. 2087 c.c., norma di chiusura del sistema.
Il caso deciso, riguardante fatti avvenuti durante la vigenza del d.lgs. 626/1994, concerne il ricorso di un operatore ecologico, addetto alla raccolta e allo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, che chiedeva il risarcimento dei danni per l’inadempimento datoriale in ordine “all’obbligo di lavaggio e manutenzione dei dispositivi di protezione individuale” (Ordinanza, § 1).
Secondo il lavoratore, i DPI in esame sarebbero stati costituiti dagli “indumenti di lavoro”.
Il Collegio dell’appello rigettava tale prospettazione in quanto sarebbe mancata nel documento di valutazione dei rischi aziendale una “specifica destinazione a finalità protettive da parte del piano di valutazione dei rischi” (ord. cit., § 3), conclusione suffragata dalla previsione di una periodicità solo settimanale per il lavaggio degli indumenti da parte datoriale.
Viepiù, la Corte territoriale ricollegava il rischio di esposizione ad agenti microbiologici a mansioni quali “raccoglitore” o spazzino, cui il ricorrente era estraneo.
In altre parole, ciò che il lavoratore presentava come carenza (inadeguata periodicità di lavaggio) era letto dalla Corte d’appello come fattore che escludeva la qualifica di DPI per gli indumenti di lavoro.
In sede di ricorso, per quanto di interesse, il lavoratore lamentava il disconoscimento della funzione protettiva degli indumenti di lavoro (cfr. ord. cit. §10, II motivo di ricorso).
Per altro verso, la sentenza era impugnata per non aver tenuto conto del rischio alla salute, in particolare microbiologico, insito nella raccolta e stoccaggio dei rifiuti solidi urbani “con pericolo di contatto, specie per alcune mansioni come quelle dei portasacchi, riguardante varie parti del corpo tra cui mani, braccia, gambe” (Cfr. ord. cit., § 11, III motivo di ricorso), rischio contro il quale la sola protezione era costituita, appunto, dai menzionati indumenti.
Nel cassare la sentenza, la Suprema Corte giudicava la limitazione dei DPI alle sole “attrezzature formalmente qualificate come tali” contrastante anzitutto con il tenore letterale dell’art. 40 d.Lgs. 626/1994.
La Corte sarda aveva inoltre disatteso la finalità della norma di “tutela della salute quale diritto fondamentale (art. 32 Cost.)” (ordinanza, § 21), per cui l’individuazione dei DPI avrebbe dovuto essere oggetto di una interpretazione estensiva – e non restrittiva – in coerenza con la posizione di garanzia di parte datoriale sancita anche “attraverso la norma di chiusura di cui all’art. 2087 c.c.” (ordinanza, § 22).
Attese tali considerazioni, era giudicata irrilevante la mancata menzione degli indumenti di lavoro quali DPI nel documento di valutazione dei rischi o nell’ambito della contrattazione collettiva, dovendosi indagare piuttosto la funzione dell’indumento di costituire una “seppur minima” protezione rispetto all’esposizione a polvere, sporcizia, sostanze nocive, connaturata alle mansioni espletate dai lavoratori (sul punto vedi anche Cass. 18674/2015 in relazione al personale addetto alle pulizie sui treni, pure citata nel testo, § 32).
In altre parole, la divisa dell’operatore ecologico, analogamente alla “tuta ignifuga del vigile del fuoco”, avrebbe avuto una funzione protettiva, per cui non avrebbe potuto essere inclusa negli “indumenti ordinari” di cui all’art. 40 II co. D.lgs. 626/1994.
Ciò in quanto rappresentava la sola barriera frapposta tra i lavoratori e il rischio di venire a contatto con sostanze nocive o agenti biologici, non risultando dalla sentenza la fornitura di ulteriori DPI volti ad eliminare detto rischio residuo.
Di qui il rinvio alla Corte d’appello di Cagliari, invitata:
- a riconsiderare la nozione di DPI come riferita “a qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva, sia pure ridotta o limitata, rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore, in conformità con l’ art. 2087 cod. civ.” (cfr. anche art. 40, I co., d.lgs. 626/1994, previsione trasfusa oggi nell’art. 74 D.Lgs. 81/2008);
- a decidere la controversia alla luce dell’obbligo datoriale “a fornire i suddetti indumenti ai dipendenti e a garantirne l’idoneità a prevenire l’insorgenza e il diffondersi di infezioni provvedendo al relativo lavaggio, che è indispensabile per mantenere gli indumenti in stato di efficienza”, discendendo ciò dall’obbligo di garanzia “ai sensi dell’art. 4, comma 5, del d.lgs. n. 626 del 1994 e degli artt. 15 e ss. del d.lgs. n. 81 del 2008 e s.m.i.” (ordinanza, § 40).
Si può aggiungere che le conclusioni sopra formulate risultano tuttora attuali, in quanto il riferimento al regolamento comunitario del 2016 introdotto nel TUSL non sostituisce ma integra i principi sinora espressi.
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Fonti: Arnaldo Maria Manfredi, avvocato in Roma, Olympus.uniurb.it, Puntosicuro.it