
Una sentenza di Cassazione Penale si è pronunciata sul nesso di causalità tra il Documento di Valutazione dei Rischi da stress lavoro-correlato e la malattia professionale da disturbi di panico per prolungata adibizione al lavoro notturno.
Come emerge dall’analisi della giurisprudenza, le eventuali carenze nella valutazione del rischio da stress da lavoro possono essere poste in correlazione sia agli infortuni che alle malattie professionali.
In ogni caso, alla base sia degli eventi infortunistici che delle malattie professionali determinati da situazioni stressogene presenti nell’ambiente di lavoro, vi sono per lo più condizioni di sottorganico, ritmi di lavoro troppo serrati che pongono sotto costante pressione i lavoratori, ambienti di lavoro malsani sotto il profilo relazionale (anche eventualmente in relazione a condotte mobbizzanti e/o molestie), lavoro monotono e ripetitivo, ambienti climatici sfavorevoli spesso uniti a turni di lavoro difficili da tollerare e così via (si vedano, su questo, i miei precedenti contributi “ Danno da superlavoro per sottodimensionamento dell’organico”, pubblicato su Puntosicuro del 27 aprile 2023 n.5378 e “ Sull’omessa valutazione del rischio stress da lavoro ripetitivo”, pubblicato su Puntosicuro del 28 marzo 2013).
Una delle possibili modalità con cui si possono manifestare le malattie professionali collegate allo stress lavoro-correlato è quella della sindrome ansioso depressiva o comunque di disturbi di natura depressiva con un quadro caratterizzato da stati d’ansia e/o attacchi di panico, di cui da sempre troviamo traccia nella giurisprudenza civile (per un approfondimento su questo, si veda oltre).
Il mese scorso, la Suprema Corte si è occupata di tale tematica con una sentenza penale ( Cassazione Penale, Sez.IV, 15 aprile 2025 n.14799) che ha posto in relazione la carente valutazione del rischio da stress lavoro-correlato (contenuta nel DVR aziendale di una catena di supermercati) con la malattia professionale definita “disturbo da panico” contratto da una lavoratrice.
In particolare, la Cassazione si è pronunciata sul ricorso proposto dalla parte civile A. (quale lavoratrice operante all’interno del supermercato) costituita nel giudizio a carico di B. (procuratore speciale dell’azienda), C. (coordinatore generale logistica), D. (coordinatore regionale amministrativo) ed E. (caporeparto),avverso la sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Bologna con cui tali imputati erano stati assolti dal reato di lesioni personali colpose in danno di A.
Nello specifico, “era contestato agli imputati, nelle rispettive qualifiche aziendali, di aver cagionato, o quantomeno non impedito, per colpa generica e specifica, l’insorgenza di una malattia professionale (“disturbo da panico”) nella persona offesa, dipendente dello stabilimento L. di M., la cui durata era stimata in almeno 54 giorni.”
Analizziamo le contestazioni che sono state mosse ai singoli imputati, “da cui era dipesa la malattia professionale contestata”.
Ad E.,in qualità di caporeparto magazzino uscita merci della Direzione Regionale L. di M.,era stato mosso l’addebito di aver “assegnato lunghi periodi di lavoro notturno alla persona offesa”.
Era poi emerso che tale soggetto “si era ripetutamente intromesso nella vita extralavorativa di A.” e che “le aveva mosso numerosi rimproveri verbali gravemente offensivi”.
In aggiunta a ciò, il caporeparto “aveva esercitato pressioni sulla vittima perché si recasse al lavoro nonostante ella si trovasse in malattia”;inoltre “aveva assunto comportamenti minacciosi” ed “aveva attribuito alla lavoratrice compiti inutili o squalificanti”.
Accanto a tali condotte vessatorie, A. aveva subito anche delle molestie da E., il quale “aveva avanzato richieste di natura sessuale.”
Vediamo ora i profili di colpa che erano stati ascritti a B.quale “procuratore speciale della ditta, con poter decisionali e di spesa ai fini dell’adempimento degli obblighi di cui al D.Lgs.81/08”, a C. “in qualità di coordinatore regionale logistica della Direzione regionale di M., con piena autonomia e responsabilità nella gestione e controllo di tutte le attività intese a dare attuazione alle norme in materia di igiene e sicurezza sul lavoro” e D. “nella qualità di coordinatore regionale amministrativo della Direzione regionale di M.”
Gli addebiti contestati a tali soggetti consistevano nel fatto che essi “omettevano di effettuare una valutazione dei rischi da stress lavorativo a cui erano esposti i dipendenti, avendo predisposto un documento valutazione rischi del tutto generico, redatto senza la consultazione dei Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e firmato da B., il quale non era datore di lavoro, in violazione degli artt.28, comma 1-bis e comma 2 lettera a) primo periodo, 29, comma 2, D.Lgs.81/08.”
Secondo i Giudici, “in tal modo, tutti costoro consentivano che A. venisse adibita costantemente al lavoro notturno, senza tener conto delle sue condizioni di salute e non attivando per lei la sorveglianza sanitaria specifica prevista dall’articolo 14, comma 1, D.Lgs.n.66 dell’8/4/2003, in violazione dell’art.18 comma 1 lett.c) del D.Lgs.81/08.”
Il Tribunale in primo grado aveva considerato responsabili e quindi condannato tali soggetti, “ravvisando un legame causale tra le condotte contestate ai singoli imputati e la patologia riscontrata sulla persona offesa”.
Nel successivo grado di giudizio, invece, la Corte d’Appello di Bologna, “sulla base dello stesso materiale probatorio esaminato dal giudice di primo grado, è andata in diverso avviso, ritenendo indimostrato che la genesi della patologia osservata nella vittima fosse correlata all’ambiente lavorativo ed alle mansioni a cui era stata adibita.”
La Corte d’Appello, in particolare, aveva ritenuto che “la depressione e lo stress diagnosticato alla persona offesa potessero trarre origine anche da altri fattori causali concorrenti e potenzialmente assorbenti”, concludendo quindi nel senso che “non sarebbe da escludersi che il quadro di ansia e lo stato depressivo insorti nella persona offesa fossero correlati alla fibromialgia dalla quale la parte civile è risultata affetta, predisponente a detti disturbi.”
Come già anticipato, la lavoratrice A. ha proposto ricorso in Cassazione, contestando, tra le varie argomentazioni, la “parte della sentenza in cui si nega l’esistenza di un nesso eziologico tra la patologa sviluppata dalla persona offesa nel corso dell’attività lavorativa e le condotte serbate dagli imputati”.
Secondo la Suprema Corte, tale “motivo di ricorso, con valore assorbente rispetto ad ogni ulteriore doglianza, è fondato e deve essere accolto nei limiti e con le precisazioni di seguito indicate.”
La Cassazione ha anzitutto chiarito che la Corte d’Appello, nel ribaltare la decisione del Tribunale, ha mancato di fornire una motivazione rafforzata (che è necessaria in questi casi), laddove, “in base ai principi ripetutamente affermati da questa Corte, in caso di ribaltamento della pronuncia di condanna, il giudice di appello” è tenuto ad “esprimere una motivazione c.d. “rafforzata”.”
Infatti, “con specifico riguardo al caso che occupa, si è affermato che il giudice d’appello che riformi in senso assolutorio la sentenza di condanna di primo grado sulla base del medesimo compendio probatorio, pur non essendo obbligato alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, è tenuto ad offrire una motivazione puntuale e adeguata che dia una razionale giustificazione della difforme decisione adottata, indicando in maniera approfondita e diffusa gli argomenti, specie se di carattere tecnico-scientifico, idonei a confutare le valutazioni del giudice di primo grado”.
La Cassazione si sofferma a questo punto sul nesso di causalità tra la malattia professionale contratta da A. e le condizioni stressogene dell’ambiente di lavoro.
La Suprema Corte precisa chei “temi riguardanti la patologia sofferta da A. e le cause di essa sono stati affrontati in diversi passaggi motivazionali della sentenza di primo grado” e che, in tal senso, “il Tribunale ha esaminato il contenuto delle testimonianze rese da G., dirigente medico del Servizio di prevenzione e sicurezza degli ambienti di lavoro dell’U.S.L. R, dal C.T. medico H., dal C.T. medico I. e dalla psicologa e psicoterapeuta J., osservando come tutti costoro avessero riconosciuto l’esistenza dei disturbi di ansia e disturbi di attacchi di panico correlati al vissuto lavorativo della persona offesa, manifestatisi nel periodo in contestazione.”
Sulla base delle emergenze processuali desunte dalle deposizioni provenienti dai medici citati e dalla psicologa e psicoterapeuta, dunque, la Cassazione sottolinea il fatto che il Tribunale “ha ritenuto che fosse stata dimostrata la patologia insorta nella parte civile ed il fattore causale di essa, riconducibile ai comportamenti vessatori serbati alla A. nel corso dell’attività lavorativa ed al fatto che venisse costantemente adibita al lavoro notturno”.
Nella pronuncia di primo grado, infatti, il Tribunale aveva specificato che “tutti i sanitari intervenuti da quelli appartenenti al CSM, a I. e a H. convengono sul fatto che la malattia professionale in danno alla A. si sia concretizzata, fornendo, sul punto, elementi che appaiono, con tutta franchezza, incontrovertibili”.
A parere della Cassazione, “la Corte d’Appello, dal canto suo, dopo avere richiamato il contenuto delle testimonianze assunte nel corso della istruttoria dibattimentale, nei termini indicati nella sentenza di primo grado, ha ritenuto di approdare a diverse conclusioni senza confrontarsi in alcun modo con l’apparato giustificativo offerto dal Tribunale in ordine alla esistenza ed alla genesi della patologia accertata nella persona offesa.”
Nello specifico, “la Corte territoriale si è infatti limitata ad affermare che sono emerse “disomogeneità delle diagnosi espresse da più medici variamente specializzati” in ordine alla patologia riscontrata nella A. e che non risulta acclarata la genesi della depressione e dello stress manifestato dalla lavoratrice., avanzando l’ipotesi che gli stati d’ansia potrebbero non avere avuto una eziologia professionale.”
Ma “così argomentando, tuttavia, non ha dato conto delle effettive ragioni per le quali ha inteso discostarsi dalle giustificazioni addotte dal primo giudice, astenendosi dal confutare gli argomenti contenuti nella sentenza di primo grado che avevano ricondotto le cause della patologia ai comportamenti serbati dal caporeparto della persona offesa.”
In conclusione, “risulta dunque evidente la violazione dei principi stabiliti dalle Sezioni Unite Troisi, sopra richiamata, in base ai quali il giudice che intenda sovvertire la pronuncia di condanna sia tenuto a fornire una puntuale, razionale giustificazione della difforme conclusione adottata.”
Pertanto la Cassazione nel caso di specie ha annullato la sentenza impugnata limitatamente agli effetti civili, con rinvio per nuovo giudizio al giudice civile competente per valore in grado di appello.
Allargando a questo punto il campo di osservazione ad altre pronunce di legittimità, è utile ricordare che, sotto il profilo civilistico, la Suprema Corte ha a suo tempo chiarito che lo stress da lavoro è un “ rischio specifico improprio”,ossia “non strettamente insito nell’atto materiale della prestazione ma collegato con la prestazione stessa”e, di conseguenza, che le malattie professionali da esso generate sono – ove ne ricorrono i presupposti – oggetto di tutela da parte del Testo Unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali ( Cassazione Civile, Sez. Lav., 5 marzo 2018 n.5066).
Anche nel caso trattato da quella sentenza (come nel caso in commento), peraltro, la Cassazione aveva ribaltato la precedente decisione della Corte d’Appello che aveva rigettato il ricorso della lavoratrice A.P. – dipendente di una importante e nota s.p.a. esercente attività editoriale – la quale chiedeva la condanna dell’Inail al pagamento della rendita per inabilità permanente in relazione alla “malattia professionale da lei contratta a causa dello stress lavorativo dovuto ad un numero elevatissimo di ore di lavoro straordinario e consistente in un grave disturbo dell’adattamento con ansia e depressione.”
Dando seguito ai principi affermati da tale pronuncia, con Cassazione Civile, Sez. Lav., 11 ottobre 2022 n.29611, la Corte qualche anno dopo ha chiarito, a fronte di una richiesta di “indennizzo per danno biologico da malattia professionale (disturbo dell’adattamento con umore depresso ed ansia compatibili con situazione lavorativa anamnesticamente avversativa)”, che “nell’ambito del sistema del TU [D.P.R.1124/1965, n.d.r.], sono indennizzabili tutte le malattie di natura fisica o psichica la cui origine sia riconducibile al rischio del lavoro, sia che riguardi la lavorazione, sia che riguardi l’organizzazione del lavoro e le modalità della sua esplicazione; dovendosi ritenere incongrua una qualsiasi distinzione in tal senso, posto che il lavoro coinvolge la persona in tutte le sue dimensioni, sottoponendola a rischi rilevanti sia per la sfera fisica che psichica (come peraltro prevede oggi a fini preventivi l’art.28, comma 1 del tu.81/2008)”.
Pertanto, “ogni forma di tecnopatia che possa ritenersi conseguenza di attività lavorativa risulta assicurata all’INAIL, anche se non è compresa tra le malattie tabellate o tra i rischi tabellati, dovendo in tale caso il lavoratore dimostrare soltanto il nesso di causa tra la lavorazione patogena e la malattia diagnosticata”.
Per quanto concerne, infine, il tema dell’origine professionale o extraprofessionale della malattia professionale da disturbo d’ansia che può essere contratta da un lavoratore, la Cassazione Civile ha ripetutamente affermato che deve essere applicata la cosiddetta “formula Gabrielli”, secondo cui “in caso di infortunio sul lavoro, se si accerta la sussistenza di fattori patologici preesistenti non aventi origine professionale, il giudice deve, anche di ufficio, fare applicazione del d.P.R.30 giugno 1965, n.1124, art.79 (norma applicabile altresì alle malattie professionali ex art.131 del d.P.R. citato) secondo cui il grado di riduzione permanente dell’attitudine al lavoro causata da infortunio, quando risulti aggravata da inabilità preesistenti derivanti da fatti estranei al lavoro, deve essere rapportata non alla normale attitudine al lavoro ma a quella ridotta per effetto delle preesistenti inabilità, e deve essere calcolata secondo la cosiddetta “formula Gabrielli” – espressa da una frazione avente come denominatore la ridotta attitudine preesistente e come numeratore la differenza tra quest’ultima (minuendo) ed il grado di attitudine al lavoro residuato dopo l’infortunio (sottraendo) – senza che abbia rilievo la circostanza che l’inabilità preesistente e quella da infortunio incidano sullo stesso apparato anatomo-funzionale (vedi, per tutte: Cass.n.6612 del 2017; Cass.n.689 del 2014; Cass.n.1890 del 2012; Cass.n.4512 del 2010; Cass. n.11703 del 2003; Cass.n.6573 del 2001; Cass.nn.13453 e 534 del 1999)” ( Cassazione Civile, Sez. Lav., 24 gennaio 2020 n.1662).
Anna Guardavilla
Dottore in Giurisprudenza specializzata nelle tematiche normative e giurisprudenziali relative alla salute e sicurezza sul lavoro