Il dolo nei reati antinfortunistici, l’articolo 437 del Codice Penale e la necessaria “diffusività” della situazione di pericolo secondo le pronunce della Corte di Cassazione. Un contributo a cura dell’avv. Carolina Valentino.
L’art. 437 c.p., “Rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro”, prevede che “Chiunque omette di collocare impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro, ovvero li rimuove o li danneggia, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni. Se dal fatto deriva un disastro o un infortunio, la pena è della reclusione da tre a dieci anni”.
Sebbene l’indicazione secondo cui il soggetto agente può essere “chiunque”, appare evidente come, nella sua forma omissiva, il reato possa essere commesso solo dai titolari di una posizione di garanzia, posto che “Non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo” (art. 40, c.p.): in altre parole, potrà essere chiamato a rispondere dell’omessa predisposizione di misure di prevenzione e protezione solo colui in capo al quale la normativa prevede il relativo obbligo.
Diverso il caso del reato nella sua forma commissiva, che può essere commesso, per l’appunto, da chiunque.
L’elemento caratterizzante della fattispecie criminosa in parola – su cui ci si soffermerà nella presente trattazione – secondo la giurisprudenza maggioritaria, è la diffusività del pericolo derivante dalla condotta incriminata.
“Ai fini della configurabilità dell’ipotesi delittuosa descritta dall’art. 437 c.p., è necessario che l’omissione, la rimozione o il danneggiamento dolosi degli impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire infortuni sul lavoro si inserisca in un contesto imprenditoriale nel quale la mancanza o l’inefficienza di quei presidi antinfortunistici abbia l’attitudine, almeno in via astratta, a pregiudicare l’integrità fisica di una collettività di lavoratori, o, comunque, di un numero di persone gravitanti attorno all’ambiente di lavoro sufficiente a realizzare la condizione di una indeterminata estensione del pericolo” (ex multis, Cass. n. 36908/2023, caso in cui i Supremi Giudici confermavano la sentenza di condanna per avere, il datore di lavoro, rimosso un estintore, ciò in quanto “l’asportazione dal distributore di carburante anche di un solo estintore, sicuro presidio indispensabile alla sicurezza del luogo sotto il profilo della prevenzione d’incendi, era senz’altro idoneo – quanto meno in via astratta – a pregiudicare l’integrità fisica dei lavoratori e di tutte le persone gravitanti attorno a quell’area o che avevano accesso, trattandosi di un luogo caratterizzato dal elevatissima concentrazione di sostanze infiammabili”. Peraltro, affermano i Supremi Giudici, correttamente nei giudizi di merito era stata data rilevanza alla circostanza “che si trattava di un distributore di carburante situato su una strada provinciale, a traffico veicolare ordinario”, al fine di dimostrare, anche solo in astratto, la diffusività del pericolo).
E, difatti, sempre secondo l’orientamento maggioritario, “il reato non è configurabile laddove l’impianto o l’apparecchiatura, difettante delle cautele destinate a prevenire infortuni sul lavoro, non sia destinato all’utilizzazione contemporanea da parte di una pluralità di lavoratori o non sia idonea a sprigionare una forza dirompente in grado di coinvolgere numerose persone” (Cass. n. 36908/2023 cit.).
A sostegno di tale orientamento, la giurisprudenza adduce la circostanza secondo cui la norma di cui trattasi trova la propria collocazione “fra i delitti contro la pubblica incolumità o di comune pericolo (Titolo II, capo VI del codice penale), accomunati dalla caratteristica potenza espansiva del danno che la condotta dolosa sanzionata può arrecare all’integrità personale di una pluralità di persone” (ex multis, Cass. n. 7939/2021).
La ratio di tale disposizione, peraltro, è ravvisabile proprio nella diffusività del pericolo, che impone al Legislatore “l’anticipazione della soglia di punibilità ad un momento che precede l’eventuale evento dannoso”, che, difatti, non costituisce elemento integrante la fattispecie di reato ma, laddove si verifichi, una circostanza aggravante (Cass. n. 7939/2021, cit.).
In altre parole, da una semplice lettura del comma uno della norma emerge chiaramente che la sanzione della reclusione da sei mesi a cinque anni è prevista per chiunque ometta di collocare, ovvero rimuova o danneggi strumenti atti a prevenire disastri o infortuni sul lavoro, senza che sia necessario che il relativo disastro o infortunio si verifichi.
Di contro, ai sensi del secondo comma, qualora il disastro o l’infortunio si verifichi, la pena è aggravata, essendo prevista la reclusione da tre a dieci anni.
Anche in merito alla diffusività del pericolo, lungi dal doversi necessariamente identificare con l’intera collettività, questa può anche riferirsi alla sola collettività di lavoratori.
“È chiaro […] che le condotte dolose descritte dall’art. 437 cod. pen. […] ben possono rilevare anche quando la diffusività del pericolo sia circoscritta alla ‘collettività’ di coloro che gravitano intorno all’ambiente di lavoro, essendo principalmente l’integrità fisica dei lavoratori l’oggetto della tutela anticipata. Non necessariamente, dunque, l’indefinitezza dei soggetti che possono essere attinti dalle conseguenze della condotta coincide con l’intera collettività, ben potendo limitarsi ad una specifica comunità di soggetti intesa come un numero di lavoratori sufficiente a realizzare la condizione di una indeterminata estensione del pericolo, senza di che mancherebbe in radice la possibilità di un’offesa al bene giuridico tutelato” (Cass. n. 7939/2021 cit.).
La sentenza di cui è tratta la massima di cui sopra merita un momento di attenzione, in quanto trattavasi di un caso in cui i Supremi Giudici venivano chiamati a pronunciarsi sulla condanna del datore di lavoro scaturita a seguito delle lesioni subite dal lavoratore colpito da un macchinario privo dei presidi di protezione.
I Supremi Giudici accoglievano il ricorso del datore di lavoro, secondo il quale non poteva condividersi “l’interpretazione assegnata dalla Corte territoriale all’ art. 437 cod. pen., che ne estende l’applicazione non solo alle ipotesi di pericolo riguardante collettività indistinte di lavoratori, od al più gruppo di essi, ma anche ad ipotesi, quale quella di specie, in cui il pericolo riguarda un solo lavoratore per ciascun turno di lavoro”.
Secondo la difesa, una simile impostazione confliggeva con la collocazione della norma incriminatrice, posta fra quelle a presidio dell’incolumità pubblica, ossia rivolte alla protezione di una pluralità di soggetti.
E, difatti, la norma presuppone che “la rimozione, il danneggiamento o l’omissione di impianti, apparecchi e segnali destinati a prevenire infortuni deve avere l’attitudine, almeno astratta, a pregiudicare l’integrità fisica di una collettività di lavoratori, ancorché ciò non significhi la coincidenza con l’intera comunità dei dipendenti. […] nel caso in esame, siffatto presupposto non è integrato, essendo affermato dalla stessa Corte territoriale che la macchina, destinata all’utilizzo da parte di un solo addetto per turno di lavoro, non si trovava in un luogo di transito di più persone. Con la conseguenza che la prospettiva argomentativa della decisione impugnata fa dipendere la sussistenza del reato non dal pericolo prodotto in un unico contesto spazio-temporale nei confronti di una pluralità – pur limitata – di lavoratori, ma dalla programmazione lavorativa, escludendo la fattispecie solo nell’ipotesi di produzione strutturata su un unico turno giornaliero, con la previsione di un unico addetto”.
I Supremi Giudici accoglievano il ricorso, sulla base della considerazione secondo cui “è […] proprio l’astratta potenzialità della condotta a determinare una situazione di pericolo per una pluralità di persone – ancorché numericamente e spazialmente determinata – che contraddistingue l’anticipazione della punibilità alla minaccia del danno all’incolumità fisica, ché altrimenti, in assenza della dimensione pubblica del pericolo, si finirebbe col considerare punibile un comportamento specificamente rivolto ad omettere, escludere o rimuovere cautele finalizzate alla tutela di un lavoratore determinato, mutando il bene giuridico tutelato anziché nella salute pubblica, nel senso di ‘collettiva’ e plurale, pur nei limiti indicati, in quella individuale”.
A quanto sopra, i Supremi Giudici aggiungono un ulteriore elemento di rilevante interesse al fine di comprendere la necessità della diffusività del pericolo: la circostanza che, nel secondo comma, nell’individuare l’aggravante, il Legislatore abbia parlato di “un infortunio” e non de “l’infortunio”.
“L’utilizzo dell’articolo indeterminativo ‘un’ anziché di quello determinativo assume un significato esegetico preciso, posto che laddove il primo comma fosse riferito alla tutela del singolo e non della collettività, il legislatore penale avrebbe posto in relazione il secondo comma con il primo facendo ricorso alla locuzione aggettivale ‘l’infortunio’. Cioè proprio quell’unico specifico evento temuto e descritto dal primo comma. La precisa scelta linguistica, nondimeno, contribuisce a spiegare che il pericolo di mettere a repentaglio l’incolumità di più persone – di per sé sanzionato – può, in concreto, realizzarsi anche con la produzione di un danno nei confronti di uno solo dei soggetti esposti al rischio”, non essendo necessario, come più volte ribadito, che, al fine di integrare la condotta criminosa, si integri l’evento del danno. È evidente, dunque, che, se da un lato la condotta criminosa deve provocare, anche solo potenzialmente, un danno alla collettività, l’aggravante riguardante il verificarsi di un infortunio può riguardare anche il singolo.
“Ne discende, nondimeno, che laddove l’impianto o l’apparecchiatura difettante delle cautele destinate a prevenire infortuni, per la volontaria omissione o rimozione delle medesime, non preveda l’utilizzazione contemporanea da parte di una pluralità di lavoratori o non sia idonea a sprigionare una forza dirompente, in grado di coinvolgere numerose persone, in un modo che non è precisamente definibile o calcolabile, il reato di cui all’art. 437 cod. pen. non può ritenersi integrato perché non è configurabile il pericolo comune, non avendo l’azione criminosa l’attitudine a coinvolgere una molteplicità di individui. Va, dunque, esclusa la configurabilità del reato contestato, contrariamente a quanto ritenuto dalla decisione impugnata, in un’ipotesi, come quella di specie, in cui al macchinario, privato delle cautele antinfortunistiche, sia destinato un lavoratore per turno”.
Ma ancora.
Si riporta di seguito un’ulteriore pronuncia ( Cass. n. 2547/2022), con cui i Supremi Giudici forniscono alcuni significativi esempi di circostanze dalle quali può trarsi la diffusività del pericolo ai fini della sussistenza del reato in esame.
Senza entrare dettagliatamente nel merito della vicenda, basti in questa sede rilevare che il procedimento scaturiva da un controllo di polizia in cantiere a seguito del quale venivano riscontrate gravi violazioni della normativa antinfortunistica, quali: assenza diffusa di protezioni contro il rischio di caduta dall’alto, utilizzo di una scala portatile non conforme, presenza di aperture e vuoti nei solai, assenza di recinzione di cantiere e incompletezza del Piano Operativo di Sicurezza.
Il Tribunale escludeva l’integrazione della fattispecie criminosa ex art. 437 c.p., dovendosi qualificare esclusivamente quali contravvenzioni previste dalla normativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro, sulla base dei seguenti elementi: nei lavori era coinvolto un solo dipendente il giorno del sopralluogo e, parimenti, un solo dipendente il giorno precedente; sebbene nello stesso stabile ove era ubicato il cantiere insistesse un’attività commerciale, non era chiaramente indicato il luogo di accesso allo stabile e, oltretutto, questo era chiuso in ragione dell’emergenza pandemica.
Ricorreva in Cassazione l’accusa ed i Supremi Giudici accoglievano il ricorso.
Enunciando i principi già esposti nella presente trattazione in merito alla necessità che il pericolo conseguente alla condotta criminosa sia atto a coinvolgere una molteplicità di persone, la Suprema Corte afferma quanto segue.
“L’indagine demandata all’ermeneuta deve essere […] svolta sul piano della potenziale offensività del comportamento irrispettoso della normativa prevenzionale – in chiave, essenzialmente, di sua attitudine ad attingere tutti coloro che, a diverso titolo, vengano a contatto con quell’ambiente lavorativo – piuttosto che su quello della individuazione della platea dei soggetti materialmente coinvolti. Nel caso di specie, il Tribunale del riesame lucano non ha fatto corretta applicazione del principio di diritto testé enunciato, perché ha escluso che il contegno dell’indagato abbia assunto il prescritto carattere di diffusività sulla scorta di elementi di fatto rappresentati e valutati in modo incompleto e, in parte, incongruo. […] ha trascurato, per un verso, la gravità delle riscontrate carenze, talune delle quali suscettibili di arrecare pregiudizio anche a soggetti estranei all’impresa appaltatrice”.
[leggasi: a una pluralità di soggetti, non essendo l’estraneità del soggetto esposto al pericolo requisiti affinché sia integrata la fattispecie criminosa]
“È questo il caso, ad esempio, della scala metallica utilizzata per l’accesso al piano sottotetto, che, per la mancanza di fissaggi e di dispositivi antiscivolo, avrebbe potuto essere rovesciata all’indietro con una lieve spinta della mano, ovvero dell’assenza di parapetti, che avrebbe potuto agevolare la caduta di materiali, oggetti e persone o, ancora, dell’assenza di recinzione, tale da consentire a chiunque l’accesso al cantiere nel quale si svolgeva attività obiettivamente pericolosa. La diffusione del pericolo nei confronti di un numero indeterminato di persone risulta, per altro verso, più concreta a cagione dell’insistenza, nella stessa struttura, di un locale aperto al pubblico, una palestra, e dell’ubicazione del fabbricato nel centro storico di [omissis], zona, deve logicamente presumersi, interessata da un intenso afflusso di persone. Nella stessa direzione militano, ancora, la consistenza, tutt’altro che minimale, delle opere appaltate e la gravità ed estensione delle violazioni – anche […] in termini di omessa valutazione del rischio elettrico e carente informazione e formazione dei lavoratori occupati in cantiere – per porre rimedio alle quali furono impartite prescrizioni severe e radicali”.
Secondo la pronuncia dei Supremi Giudici, il Tribunale aveva omesso di operare una valutazione globale e unitaria, che tenesse conto dell’insieme delle evidenze disponibili, focalizzandosi su singoli elementi ed ignorando, ad esempio, la complessiva entità della forza lavoro di cui l’impresa avrebbe potuto disporre, stante, come emerso dal materiale probatorio, l’impegno successivamente profuso nel ripristinare le condizioni di sicurezza ed ottenere il dissequestro del cantiere.
“Né, va aggiunto con riferimento alla palestra posta al primo piano dello stabile […], può assegnarsi significativa rilevanza alla contingente chiusura determinata dall’emergenza pandemica, condizione eccezionale e transeunte, ovvero alla precisa individuazione del punto di accesso [allo stabile], circostanze che non interferiscono con la questione di centrale importanza, che attiene alla conclamata possibilità che un numero imprecisato, e potenzialmente elevato, di terzi, quali il personale e gli utenti di una struttura sportiva sita nel centro di una cittadina come [omissis], restasse esposto al pericolo derivante dall’omissione di fondamentali presidi di sicurezza, tra cui la recinzione dell’area, la collocazione di parapetti, il fissaggio della scala”.
In merito al fatto che il carattere della “diffusività” sia da riferirsi non necessariamente a terzi, ma anche solo alla comunità di lavoratori, vedasi Cass. 13937/2017, secondo cui “ai fini della configurabilità dell’ipotesi delittuosa descritta dall’art. 437 cod. pen., è necessario che l’omissione, la rimozione o il danneggiamento dolosi degli impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire infortuni sul lavoro si inserisca in un contesto imprenditoriale nel quale la mancanza o l’inefficienza di quei presidi antinfortunistici abbia l’attitudine, almeno astratta, anche se non abbisognevole di concreta verifica, a pregiudicare l’integrità fisica di una collettività di lavoratori, o, comunque, di persone gravitanti attorno all’ambiente di lavoro”.
Posto tutto quanto sopra in termini di necessità di diffusività del pericolo, per fini di completezza non può, comunque, non segnalarsi che tale orientamento non è del tutto univoco.
Ai fini della presente trattazione si è omesso, come è ovvio, di citare l’intero testo delle sentenze. Eppur tuttavia, preme segnalare che, nella parte in cui, nelle citate pronunce, i Supremi Giudici affermano la necessità che il pericolo riguardi la collettività, dichiarano parimenti di discostarsi da quanto espresso in altre sentenze, quale, a titolo esemplificativo, Cass. n. 57673/2017, in cui la Suprema Corte, nel confermare la condanna dell’imputato in ordine al reato ex art. 437 c.p., affermava il diverso orientamento (presentandolo, peraltro – si legge dal medesimo testo della sentenza – come “incontrastato”) secondo cui “Pur trattandosi di un delitto contro l’incolumità pubblica, e segnatamente di un reato di pericolo, il riferimento all'”infortunio” [legittima] l’integrazione della fattispecie anche laddove il pericolo si sia verificato solamente per un singolo lavoratore [ndr. unico addetto alla macchina], come accaduto in questo caso. La norma di cui all’art. 437 c.p. è infatti diretta alla tutela della pubblica incolumità contro eventi lesivi che possono verificarsi nello specifico ambiente di lavoro, per effetto di omissioni, rimozioni o danneggiamenti di apparecchi antinfortunistici, e comprende tra gli anzidetti eventi lesivi non solo il disastro, ma anche il semplice infortunio individuale: poiché in materia di prevenzione degli infortuni il concetto della pubblica incolumità è caratterizzato dall’indeterminatezza delle persone e non dal numero rilevante di esse che si possono trovare in una situazione di pericolo, la tutela concerne anche gli operai di una piccola fabbrica ed il delitto deve considerarsi realizzato anche nel caso in cui la situazione di pericolo possa coinvolgere la sola persona che si trovi ad essere addetta alla macchina priva di dispositivi e congegni atti a prevenire gli infortuni”.
Fonti: Puntosicuro.it, Avv. Carolina Valentino