Come e perché superare i fraintendimenti relativi all’attuazione dell’obbligo di vigilanza nei confronti dei lavoratori con particolare esperienza e anzianità lavorativa, di quelli inviati fuori sede da soli e dei (veri) preposti.
Di tanto in tanto nelle aule di formazione o dei convegni mi capita di sentirmi porre una domanda sulla presunta figura del “preposto di se stesso” e di dover rispondere, a rettifica di ogni diversa convinzione, che essa non ha alcun fondamento giuridico. In pratica, non esiste.
Ho riscontrato negli anni che questo fraintendimento nasce dall’unione di diverse idee di partenza (errate) che poi finiscono per intrecciarsi tra loro ovvero, essenzialmente e in estrema sintesi: 1) l’idea che a fronte di un lavoratore munito di particolare esperienza e/o anzianità lavorativa non vi sia bisogno di qualcuno che effettui la vigilanza su di lui in quanto lui vigilerebbe già su se stesso; 2) l’idea, rinvenibile soprattutto nelle argomentazioni difensive di alcuni datori di lavoro o dirigenti ma non solo, che non sussista la responsabilità degli stessi a fronte di un infortunio occorso ad un preposto (correttamente definibile come tale in questo caso alla luce della relativa definizione) in quanto quest’ultimo vigilerebbe su se stesso; 3) l’idea che, a certe condizioni, un lavoratore che opera da solo (ad esempio in esterno) e verso il quale non sia predisposta alcuna vigilanza possa essere “preposto di se stesso”.
In sostanza, queste idee errate partono da una confusione di fondo e quindi da una sovrapposizione tra il concetto di vigilanza, il quale implica che A vigili su B, e il concetto del prendersi cura di se stesso e delle altre persone presenti nell’ambiente di lavoro (etc…) quale comportamento che viene richiesto ad un lavoratore, ovviamente conformemente alla formazione, alle istruzioni e ai mezzi ricevuti.
Si tratta di convinzioni (che, come si diceva, sono prive di fondamento giuridico) che per lo più prendono concretamente corpo – alla luce quantomeno della mia esperienza – allorché chi mette in piedi un sistema organizzativo si trova di fronte a delle difficoltà oggettive o percepite di predisporre una vigilanza capillare.
Occorre in quei casi ricordare che la vigilanza deve per legge essere predisposta, organizzata e attuata anche nei confronti dei lavoratori particolarmente esperti, dei lavoratori che operano da soli (ad esempio in spazi esterni) nonché dei veri e propri preposti (intesi correttamente come tali alla luce della definizione prevista dal Testo Unico).
La Relazione Finale della Commissione d’inchiesta del Senato sugli infortuni sul lavoro un anno fa ha chiarito in merito che “rimane, in ogni caso, confermato che un lavoratore non può essere il preposto di se stesso, per cui, nel caso di una impresa con un solo lavoratore il ruolo di preposto dovrà essere svolto dal suo datore di lavoro.”
Per quanto riguarda poi l’ultima delle tre convinzioni erronee che ho elencato sopra, la medesima Commissione del Senato ha inoltre precisato che, “anche nel caso di un lavoratore o più lavoratori che normalmente vengano inviati ad effettuare lavori fuori sede senza un preposto, il datore di lavoro o i dirigenti dovranno organizzare un sistema di vigilanza random a cura di un preposto itinerante, in mancanza del quale l’obbligo di vigilanza di cui all’articolo 19, che è un obbligo irrinunciabile, ricadrà sui dirigenti o sullo stesso datore di lavoro.” (Relazione finale della Commissione Parlamentare di Inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia, sullo sfruttamento e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro pubblici e privati, approvata in via conclusiva il 26 luglio 2022 e comunicata alla Presidenza il 7 ottobre 2022).
Del resto, la giurisprudenza ci ricorda costantemente che, ai sensi dell’art.18 D.Lgs.81/08, “il datore di lavoro può assolvere all’obbligo di vigilare sull’osservanza delle misure di prevenzione adottate attraverso la preposizione di soggetti a ciò deputati e la previsione di procedureche assicurino la conoscenza da parte sua delle attività lavorative effettivamente compiute e delle loro concrete modalità esecutive, in modo da garantire la persistente efficacia delle misure di prevenzione scelte a seguito della valutazione dei rischi (Sez.4, n.14915 del 19/02/2019, Arrigoni, Rv.275577).” (Cassazione Penale, Sez.IV, 17 gennaio 2020 n.1683).
A monte, comunque, va detto che l’impossibilità della configurazione della figura del cosiddetto “preposto di se stesso” si ricava dalla stessa definizione normativa di “preposto”, quale “persona che, in ragione delle competenze professionali e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell’incarico conferitogli, sovrintende alla attività lavorativa e garantisce l’attuazione delle direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori ed esercitando un funzionale potere di iniziativa”; definizioneda leggersi unitamente ai vari obblighi relativi alla vigilanza (necessaria anche nei confronti dei preposti stessi) a carico del datore di lavoro e del dirigente (art.2 c.1 lett.e) in comb.disp. art.18 c.1 lett.b-bis), f), bb) e comma 3-bis D.Lgs.81/08).
La giurisprudenza della Cassazione Penale, coerentemente con tale impostazione normativa, non riconosce alcuna rilevanza alla figura del preposto di se stesso.
Ciò può essere riscontrato facilmente prendendo in esame alcune pronunce della Corte.
Partiamo dall’analisi dell’idea errata che un lavoratore munito di particolare esperienza e/o anzianità lavorativa possa a certe condizioni essere qualificato come “preposto di se stesso”.
Basterà qui richiamare Cassazione Penale, Sez.IV, 2 novembre 2018 n.49885, con cuila Corte si è pronunciata sulle responsabilità dell’operaio S.T. condannato dalla Corte d’Appello per il reato di lesioni personali colpose in danno del collega M.G.
Si era verificato che “il responsabile dello stabilimento, G.P., aveva incaricato gli operai S.T. e M.G. di smontare una macchina per portare il motore, tramite un paranco, all’officina del piano sottostante secondo dettagliate modalità che garantivano la sicurezza dell’operazione.”
Tuttavia “i predetti dipendenti, concordemente, decidevano di non seguire le puntuali istruzioni date dal loro superiore, in quanto ritenute gravose, e insieme si adoperavano per rimuovere una porzione della griglia che faceva parte del pavimento di quel piano per calare la macchina da tale apertura utilizzando un paranco mobile che avevano attaccato ad una capretta metallica posta sopra la botola stessa.”
A questo punto “l’operazione era riuscita ed il M.G. era sceso al piano di sotto per togliere il cavo del paranco dal macchinario. I due, tuttavia, non concordavano le azioni successive e così il M.G. decideva di risalire subito al piano soprastante per vedere se il S.T. avesse bisogno di aiuto.”
Ma “quest’ultimo, nel frattempo, si accingeva a riposizionare la griglia sulla apertura al fine di ripristinare il pavimento ed aveva, quindi, spostato la capretta metallica. La persona offesa metteva il piede nella botola non ancora richiusa e precipitava al piano inferiore, da un’altezza di 4,5 metri”.
A fronte di tale quadro, la Cassazione ricorda che “il giudizio di responsabilità si fonda sulla ritenuta posizione di garanzia ricoperta dal S.T. ai sensi dell’art.20, d.lgs. n.81/2008, che, al primo comma, recita: «Ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro».”
A questo proposito – prosegue la Suprema Corte – “in materia di infortuni sul lavoro, il lavoratore, in base al citato disposto normativo, è garante, oltre che della propria sicurezza, anche di quella dei propri colleghi di lavoro o di altre persone presenti, quando si trova nella condizione di intervenire per rimuovere le possibili cause di pericolo, in ragione della maggiore esperienza lavorativa”.
Di conseguenza, nel caso di specie, “la Corte territoriale ha ritenuto che il S.T., quale operaio addetto alla manutenzione, avesse un’anzianità ed una formazione tali da potere apprezzare e cogliere il pericolo creato dalla procedura seguita per calare il macchinario al piano sottostante, in violazione delle disposizioni appena ricevute dal superiore e del disposto normativo dell’art.20, d.lgs.n.81/2008.”
La Cassazione è dunque cristallina nel sottolineare che un lavoratore particolarmente esperto, lungi dall’essere “preposto di se stesso”, ha gli obblighi previsti dall’art.20 del D.Lgs.81/08, la cui violazione verrà valutata “in ragione della maggiore esperienza lavorativa” (nella fattispecie il lavoratore aveva“un’anzianità ed una formazione tali da potere apprezzare e cogliere il pericolo creato dalla procedura seguita per calare il macchinario al piano sottostante”).
Concludiamo questa analisi, che come sempre non ha alcuna pretesa di essere esaustiva sull’argomento, prendendo in esame l’idea errata secondo la quale in alcuni casi un soggetto che sia qualificabile correttamente come un vero e proprio preposto possa essere ritenuto “preposto di se stesso”; in poche parole, l’idea che nessuno debba vigilare sul preposto in quanto soggetto in re ipsa particolarmente formato e qualificato.
Come ricordato dalla Suprema Corte, “a fini prevenzionistici, rispetto alla condotta del preposto, rimane responsabile il datore di lavoro in relazione ai rischi per la sicurezza dei lavoratori aventi portata generale e connessi all’attività lavorativa; e ciò in base al potere-dovere generale di vigilanza su di lui gravante, in tutte le ipotesi in cui l’organizzazione aziendale non presenta complessità tali da sollevare del tutto l’organo apicale dalle responsabilità connesse gestione del rischio” ( Cassazione Penale, Sez.IV, 17 novembre 2016 n.48831).
Un’applicazione concreta di tale principio, più nello specifico, possiamo trovarla in Cassazione Penale, Sez.IV, 15 aprile 2019 n.16216, con cui la Corte ha confermato la condanna del datore di lavoro di un caseificio per il reato di lesioni personali gravissime ai danni del lavoratore A.G. per la “mancata predisposizione del documento di valutazione dei rischi, l’omessa formazione ed informazione dei lavoratori, l’omessa vigilanza sull’utilizzo improprio delle attrezzature produttive”.
Premesso che era stato accertato che “era l’esigenza di rendere più rapida la lavorazione ad avere reso necessaria la rimozione della griglia” da parte del preposto infortunatosi, secondo la Corte il fatto “che ciò sia accaduto per non compromettere la tenuta della pasta filata, come sostengono, secondo la Corte territoriale, la persona offesa ed il teste I. […] o che sia dipeso dalla volontà di A.G. di terminare rapidamente il turno di lavoro, non muta la responsabilità del datore di lavoro che ha omesso di vigilare efficacemente sul corretto funzionamento del macchinario e sul dovuto utilizzo dei dispositivi di sicurezza, da parte dei prestatori di lavoro.”
E “né può valere ad escludere detta responsabilità il fatto che A.G. fosse un lavoratore esperto, tanto da essere stato ritenuto preposto, in quanto avente “una supremazia” sugli altri lavoratori.”
Fonti: Olympus.uniurb.it, Puntosicuro.it, Anna Guardavilla (Dottore in Giurisprudenza specializzata nelle tematiche normative e giurisprudenziali relative alla salute e sicurezza sul lavoro)