ACCIDENT-AT-WORK-482x270Qualcuno sostiene la necessità di registrare i near miss nel DVR e altri si oppongono. L’impressione è di un avvitamento su problemi secondari rispetto a quello principale della riduzione degli infortuni. Articolo a cura di Giuseppe Spada.

Per continuare a tener viva l’attenzione sul tema dei near miss, dei mancati infortuni e sulla necessità di migliorare – a partire non solo da incidenti e infortuni, ma ancor prima dai rischi – le strategie di prevenzione aziendale, riceviamo e volentieri pubblichiamo un articolo dell’Ing. Giuseppe Spada. L’Ing. Spada, uno dei relatori al recente il convegno “ Gli incidenti mancati e la consapevolezza del lavoratore” (Bologna, 16 ottobre 2015), ci spinge a riportare su un piano di realtà il tema dei near miss. Perché “non c’è alcuna differenza per un buon operatore della prevenzione tra infortuni e incidenti tutti, semplici o near miss, perché tutti devono ugualmente essere presi in considerazione, essere analizzati e trattati per elevare i livelli di sicurezza nell’unità produttiva d’interesse”. E il “faro da seguire è quello del livello di rischio e non quello degli eventi accaduti”.
Lasciandovi alla lettura di questo interessante articolo, ricordiamo ai nostri lettori che PuntoSicuro ha pubblicato nei giorni scorsi il video integrale del convegno “ Gli incidenti mancati e la consapevolezza del lavoratore”.
Si sente parlare sempre più spesso tra coloro che trattano la salute e la sicurezza sul lavoro (SSL) del problema costituito dai near miss. Molti confondono il significato di questa espressione di origine anglosassone con eventi o situazioni diverse tra loro. Altri ancora sostengono la necessità di registrare i near miss nel documento di valutazione dei rischi (DVR), mentre altri si oppongono. L’impressione che se ne ha di questa situazione è di un avvitamento su problemi secondari rispetto a quello principale e fondamentale di trovare e percorrere tutte le strade possibili per ridurre il numero e la gravità degli infortuni sul lavoro.

Mi sembra opportuno tornare sull’argomento nel tentativo di chiarire queste problematiche senza avere la presunzione di essere l’unico possessore del verbo.

Se consultiamo un qualsiasi vocabolario della lingua inglese, l’espressione near miss è tradotta in italiano con l’espressione “sinistro mancato” o “collisione evitata a mala pena” ed altre similari. L’uso che se ne fa in quel Paese nel campo della SSL dagli addetti ai lavori è di “infortunio mancato”. Se l’infortunio è, dunque, mancato e quindi non si sono lamentati danni alle persone, il near miss è un incidente. Un particolare tipo d’incidente che per una fortunosa circostanza non ha causato alcun danno alle persone, ma che se queste favorevoli circostanze non si fossero verificate, i danni alle persone ci sarebbero stati e magari sarebbero stati di una certa gravità. È fatto in sostanza un distinguo tra incidente semplice ed incidente “near miss” per sottolineare che le eventuali conseguenze nel secondo caso avrebbero potuto coinvolgere le persone e quindi sarebbero state più gravose che nel primo caso dove, invece, si sarebbero potuti lamentare solo danni materiali.

Il near miss non può essere tradotto in italiano in “mancato incidente” perché esso è un incidente, affatto mancato, ma anzi avvenuto pericolosamente. Se in Italia vogliamo usare questa terminologia di derivazione anglosassone, per cortesia, usiamola almeno correttamente.
Mi sembra altrettanto errato usare la terminologia “near miss” per indicare ogni tipo d’incidenti. Se fosse così -ma non deve essere così- perché non usare un termine italiano chiaro ed inequivocabile quale “incidente” che peraltro evita di costringere a fare una distinzione tra incidente semplice ed incidente near miss?

Prima di analizzare gli incidenti near miss, mi sia consentito aprire una parentesi per ricordare sinteticamente, attraverso lo schema di Fig 1, qual è la dinamica degli incidenti e degli infortuni.

L’intero processo infortunistico-incidentale ha inizio da una causa radice costituita da una deviazione dal normale, pianificato e programmato iter lavorativo, spesso dettato da una precisa procedura in un contesto organizzato. La deviazione può essere determinata da un guasto, da una situazione pericolosa o da un comportamento pericoloso. In funzione poi di eventi concomitanti tale deviazione genera un anomalo funzionamento del processo con conseguenze sulla qualità dei prodotti, o un incidente con danni alle cose ma nessun danno alle persone o un infortunio con danni alle persone. Nell’ambito degli eventi “incidente” possiamo poi fare una distinzione in funzione della vicinanza dell’evento a trasformarsi in infortunio. La tesi più diffusa è quella di distinguere un incidente semplice da un incidente near miss in funzione del coinvolgimento di persone nell’evento incidentale.
Elementi qualificanti del near miss sono dunque gli eventi concomitanti che hanno consentito alla causa radice di causare un incidente e il coinvolgimento di persone.
Gli elementi concomitanti possono essere i più svariati, difficili da codificare e classificare tutti. Credo che quelli che hanno un loro ruolo significativo nella determinazione dei near miss siano di carattere dinamico che hanno influenza sulle tempistiche secondo le quali un soggetto è coinvolto o meno nell’evento e quelli di carattere protezionistico collettivo, costituiti per esempio da barriere. Ed altri che non mi sembra il caso qui indicare.


Il coinvolgimento delle persone in un evento è più difficile da definire e rilevare per fatti già avvenuti. Cerco spiegarmi con un esempio: supponiamo che ad un carpentiere operante su un piano alto di un edificio in costruzione sfugga di mano la mazzetta che termina la sua caduta sul piazzale sottostante. Se questa giunge a terra quando in quell’area non c’è nessuno (coinvolgimento di persone = zero), certamente noi possiamo parlare di un classico incidente. Se però in quell’area ci sono delle persone, quando possiamo parlare di near miss? Quando possiamo dire che questo evento ha coinvolto delle persone senza tuttavia causare loro alcun danno? Se la mazzetta sfiora un soggetto ad una distanza, ad esempio, di 10 cm, ragionevolmente possiamo dire che trattasi di near miss. Ma se cade a 20 cm, a 50, ad un metro, a 2mt, a 3 mt. a 5 mt, a 20 mt, a 50 mt, è un near miss ? Possiamo dire che una persona distante 5 mt o più è stata coinvolta senza danno personale nell’evento? Quando può affermarsi in modo inequivocabile che trattasi di un near miss? Quale il confine e chi lo stabilisce, lo ripeto, con certezza inequivocabile? E come si fa ad accertare la dinamica e le tempistiche che hanno concretizzato l’evento concomitante (presenza delle persone in quel punto o nelle immediate vicinanze)?
E se protagonista dell’incidente è una sostanza chimica, liquida o gassosa che sia, o biologica, come fare a stabilire il confine, che in questi casi non è mai netto? Quali devono essere le concentrazioni della sostanza (è evidente che la concentrazione è diversa da caso a caso in funzione del tipo di sostanza) pervenuta alle persone coinvolte per considerare l’evento incidente near miss? E se protagoniste dell’evento sono onde elettromagnetiche o radiazioni ionizzanti? Quando si può affermare in modo netto e sicuro se trattasi d’incidente semplice o d’incidente near miss?
Non c’è nessuno che possa definire in modo certo ed incontestabile questo confine.
Sono circolate dei tentativi tendenti a definire i near miss, ma tutti trascuravano alcuni aspetti e avevano evidenti lacune.

La conseguenza di tutto ciò è che l’uso di questa terminologia deve essere confinata, a mio avviso, esclusivamente in ambito aziendale ad uso interno e per scopi prevenzionali, come cercherò di spiegare più sotto.

Di concreto, netto, incontestabile e facilmente dimostrabile c’è solo il confine tra incidente e infortunio.
Utilizzare la terminologia near miss al di fuori dell’ambito aziendale, può portare a confusioni e a utilizzi anomali fino al punto da spingere qualcuno a equiparare i near miss agli infortuni proponendo perfino conseguenze giudiziarie simili a quelle previste per gli infortuni. Nei paesi anglosassoni il quadro giuridico è diverso dal nostro e i giudizi (così sembra) sono più basati su fatti concreti e non sul rispetto delle formalità.

Questa preoccupazione non deve tuttavia ridurre l’impegno ad affrontare i near miss con la dovuta responsabilità, nell’ambito di una corretta attività di prevenzione. Se dal punto di vista legale e formale c’è una netta differenza tra incidenti e infortuni, non c’è alcuna differenza per un buon operatore della prevenzione tra infortuni e incidenti tutti, semplici o near miss, perché tutti devono ugualmente essere presi in considerazione, essere analizzati e trattati per elevare i livelli di sicurezza nell’unità produttiva d’interesse.

Per quanto mi riguarda, mi sono fatto la convinzione, molto forte, in quarant’anni di attività nel campo dei rischi lavorativi e in quello prevenzionale, che, se si vuole fare prevenzione efficace, non si deve distinguere tra i vari livelli di rischiosità degli incidenti accaduti, al fine di trascurarne alcuni, perché tutti vanno analizzati, per tutti è necessario risalire alla causa radice e tutte le cause radice devono essere eliminate. Non solo, ma devono anche essere rilevate, analizzate e trattate tutte le situazioni pericolose e i comportamenti pericolosi. Questa scelta di fondo non deve essere inficiata dalle scelte organizzative e gestionali. Non esiste, infatti, preventore responsabile e pragmatico che, non potendo fare tutto e subito, non si organizzi dandosi delle priorità d’intervento: precedenza prima all’eliminazione delle cause radice che hanno determinato gli infortuni, anteponendo quelli dalle gravi conseguenze, e poi a quelle che hanno determinato gli incidenti più rischiosi e successivamente a quelle che hanno determinato gli incidenti meno rischiosi per completare il percorso, peraltro sempre costantemente in essere, esaminando le situazioni pericolose e i comportamenti pericolosi.

La differenziazione tra incidenti semplici e incidenti near miss può essere utile all’operatore della prevenzione solo a fini gestionali e organizzativi nella fase prevenzionale della sua attività per dare priorità d’intervento a quegli eventi che hanno evidenziato una maggiore rischiosità, senza per questo trascurare quelli meno rischiosi e senza dimenticare che ambedue sono incidenti. Una buona prassi nella gestione della prevenzione è quella di agire prima in un’ottica reattiva, nel senso di intervenire subito per evitare che infortuni verificatesi in passato possano ripetersi nuovamente, per poi intervenire in un’ottica prevenzionale su tutti gli incidenti, dando la precedenza a quelli che a mala pena abbiano sfiorato l’infortunio (near miss) e quindi intervenire sulle situazioni pericolose e sui comportamenti pericolosi, per spingersi infine a trattare i rischi in un’ottica proattiva [1].

Fare prevenzione non significa accontentarsi di tamponare le deviazioni che hanno provocato infortuni, limitando la propria azione solo a un’attività reattiva. L’approccio reattivo, pur doveroso, è il primo tassello di una costruzione che deve passare per quello preventivo e sfociare in quello proattivo. L’evidenza e trattazione degli incidenti near miss non deve polarizzare l’attenzione al punto da trascurare poi l’esame degli incidenti semplici.
L’importanza di trattare non solo gli infortuni ma tutti gli incidenti deriva da un fatto incontestabile: gli infortuni sono un “di cui” degli incidenti, che eventi concomitanti hanno trasformato in infortuni. Gli infortuni sono una sottoclasse degli incidenti. Ridurre dunque gli incidenti significa ridurre gli infortuni.

È opportuno richiamare a sostegno di queste affermazioni la famosa Piramide di Heinrich (v. Fig. 2), che al di là dei numeri pubblicati da vari autori che dopo Heinrich si sono cimentati nello studio statistico del fenomeno infortunistico, mostra l’esistenza di una consolidata proporzione tra le varie tipologie di eventi. Non deve stupire che i vari autori hanno pubblicato numeri diversi perché questi derivano da vari fattori: dal campione di riferimento per la ricerca statistica, dal criterio di rilevamento, dal periodo storico-economico (crescita o recessione) del paese e dallo stato di avanzamento delle attività di prevenzione realizzato nel paese stesso dove è stata fatta la ricerca. Quello che è importante rilevare da tutti questi studi è che il numero degli incidenti, delle situazioni pericolose e dei comportamenti pericolosi è notevolmente superiore a quello degli infortuni (le dimensioni del disegno sono state artatamente ridotte per poterlo inserire nel testo).
I risultati di queste ricerche statistiche confermano l’osservazione che una causa radice determina un incidente e che solo certi eventi concomitanti generano dei danni alle persone, trasformando un incidente in infortunio. Il numero degli infortuni è, pertanto, nettamente inferiore a quello degli incidenti.
Gli infortuni sono un sottoinsieme degli incidenti.


In un’ottica squisitamente scientifica, non etica, gli infortuni sono numericamente molto pochi, quasi rari se confrontati alla massa elevata degli incidenti, delle situazioni pericolose e delle azioni pericolose. Indagare sui soli infortuni per rilevare le cause radice al fine di porvi un rimedio può essere molto arduo e difficoltoso e comunque può solo portare a soluzioni specifiche connesse al caso di specie e parziali ove si volessero estendere le soluzioni prevenzionali adottate ad una famiglia di situazioni. Ciò perché le dinamiche degli infortuni sotto esame sono molto diverse, le concomitanze sono molto diverse, le lavorazioni e i materiali sono molto diversi, le macchine ed attrezzature sono molto diverse, le tecnologie sono molto diverse, le organizzazioni del lavoro sono molto diverse e le macchine e le tecnologie sono in continua evoluzione e rinnovamento.

Gli incidenti costituiscono invece una massa critica che facilita il compito dei preventori.
D’altra parte, credo, che nessuno possa contestare che esaminare e trattare gli incidenti sia nell’interesse dell’azienda perché evita sprechi di risorse economiche costituite dai danni causati dagli incidenti.

Alcuni sostengono che si debbano registrare i near miss nel DVR.
Il DVR è un documento programmatico che indica la strada da percorrere per sanificare l’unità produttiva dai rischi presenti. È quindi necessario eseguire un’analisi della situazione presente, elencare tutti i pericoli, valutare il loro livello di rischiosità e pianificare e programmare gli interventi necessari alla loro eliminazione o, per lo meno, alla loro riduzione. Questa è l’essenza, il motivo d’essere dell’esistenza di questo documento che ha il fine di evidenziare i rischi e di far assumere l’impegno di neutralizzarli e di pianificare e programmare le conseguenti necessarie attività prevenzionali.
Poiché nei luoghi di lavoro la situazione non è mai statica, il DVR è un documento in continuo divenire dove gli aggiornamenti sono necessari ogni qual volta l’analisi del rischio e la relativa valutazione evidenziano, in seguito ad una modifica dei processi e procedure o ad un cambiamento di macchine e attrezzature o anche ad un incidente, un nuovo rischio che correttamente deve essere, questo si, registrato.

È dunque errato – secondo la mia opinione – dire che nel DVR è necessario registrare gli incidenti near miss. Bisogna invece registrare, senza reticenze o zone d’ombra, tutti i rischi presenti, sia emersi in seguito ad infortuni, sia evidenziati in seguito ad incidenti, near miss o meno, e sia rilevati in seguito ad un’attenta analisi delle macchine, impianti, attrezzature, situazioni e comportamenti. Anzi direi che è più importante registrare i rischi di elevato livello, emersi in alcune situazioni particolari, che tuttavia non hanno prodotto nemmeno incidenti di alcun genere, ed aggredirli al più presto, certamente prima di trattare ed abbattere i rischi di minore livello che hanno determinato un near miss. Si pensi alle situazioni che si verificano in una centrale nucleare (elevatissima magnitudo).

In altre parole il faro da seguire è quello del livello di rischio e non quello degli eventi accaduti, tanto più che l’accadimento di un evento, near miss o meno, dipende da fatti concomitanti spesso d’incerta origine, imprevedibili ed ingovernabili, spesso del tutto fortuiti (bassa probabilità = minore rischio) e spesso in grado di generare solo danni molto ridotti (magnitudo) alle persone e quindi in definitiva di basso rischio.
Questo è un buon DVR.

Per questi motivi a me, tecnico della prevenzione, le sottigliezze ed i distinguo giuridici o gli ampliamenti omnicomprensivi non interessano.
Io sono fermamente convito che se una persona s’impegna fortemente, adoperandosi con senso di responsabilità per perseguire corretti obiettivi di salute e sicurezza sul lavoro non incorrerà mai nei giusti rigori della Magistratura penale, nella quale, nonostante le critiche qualunquistiche ad essa rivolte nel campo infortunistico, io nutro molta fiducia. Certo, siamo tutti esseri umani, ed errori possono accadere anche in buona fede.

Per avere la possibilità di analizzare tutti gli incidenti è necessario venirne a conoscenza. E chi meglio dei lavoratori interessati, in qualità di attori o spettatori, possono rilevarli e comunicarli al Servizio di Prevenzione e Protezione (SPP), che è preposto alla loro analisi tecnica? Troppo spesso, purtroppo, loro non lo fanno per vari motivi, in particolare perché non si rendono conto del rischio corso o perché temono ritorsioni da parte della dirigenza aziendale.
Io credo che ciò accada perché manca la cultura della sicurezza, manca la consapevolezza che anche la comunicazione di questi eventi è un atto di civiltà del lavoro, manca un ambiente aziendale sensibile, nei suoi vertici, dell’importanza e del valore economico delle competenze delle donne e degli uomini dell’organizzazione che vanno quindi protetti, manca un convinto coinvolgimento dei lavoratori agli obiettivi dell’azienda. Se i lavoratori comprendono appieno l’impegno della direzione aziendale nel tutelare la loro sicurezza e nel venire incontro ai loro bisogni fondamentali, allora si sentono parte integrante di un’organizzazione, di un gruppo, proteso a contribuire alla crescita della propria azienda, che sentono appunto propria.
Sono questi valori che danno un contributo determinante di crescita all’azienda e che creano quella cultura della sicurezza che sta alla base di una collaborazione con il SPP.
Per ottenere questo è però necessaria primariamente l’intima convinzione dell’alta direzione aziendale, un commitment forte, una leadership determinata che convinca tutti che la sicurezza delle donne e degli uomini dell’organizzazione costituisce uno dei valori fondanti di tutta l’azienda. La maggiore ricchezza di un’azienda non sono le risorse economiche né le dimensioni e la qualità delle macchine ed impianti ma la partecipazione attiva e convinta delle donne e degli uomini dell’organizzazione agli obiettivi strategici dell’azienda, anche nell’interesse stesso dei lavoratori.
Per ottenere quest’obiettivo è necessario rivolgere una formazione globale, prima indirizzata all’alta direzione aziendale ed al management e poi a tutto il personale. Non serve che l’amministratore delegato (AD) si sieda al tavolo insieme alle organizzazioni sindacali e ai RLS, facendo uno sterile atto di presenza, spesso ipocrita, ma serve la chiara percezione di una sua ferma e convinta volontà di perseguire quei valori che ho appena citato e del ruolo fondamentale del personale nell’azienda. Un AD ha molti modi tangibili per dimostrare la propria decisa volontà.

A chi adotta un Sistema di Gestione della Salute e Sicurezza sul Lavoro (SGSL), che sta alla base del modello organizzativo esimente la responsabilità amministrativa di un’azienda, di cui all’art. 30 del D.lgs. 81/08, viene richiesto di considerare, analizzare, valutare il rischio degli incidenti che si sono verificati nell’unità produttiva al fine di rilevare ed eliminare le cause radice. Chi non lo fa, non rispetta le indicazioni della linea guida UNI-INAIL e quindi non è conforme.
Un modello organizzativo che non prevede l’esame degli incidenti non ha valore esimente.
Analogamente chi adotta il World Class Manufacturing, sistema di gestione aziendale più avanzato e globale sia perché teso in modo armonico a far crescere l’azienda attraverso l’aumento della competitività e sia perché coinvolge in modo integrato tutte le funzioni aziendali, compresa la gestione della SSL (Pillar Safety) (vedi UNI-TR 11542), deve necessariamente considerare ed affrontare tutti gli incidenti che si sono verificati nell’unità produttiva e considerare ed affrontare le condizioni pericolose individuate ed i comportamenti pericolosi riscontrati. Se ne trova una corrispondenza nei tool proposti nell’ UNI-TR 11542, quali “Classificazione delle aree”, “S-EWO”, “Risk Prediction”, “S-Matrix Preventivo”, “Classificazione degli incidenti”, “WCL-RJA-RCA”. L’uso di questi tool con la relativa compilazione delle schede e tabelle costituisce, di fatto, un rilevamento degli incidenti, delle situazioni pericolose e dei comportamenti pericolosi, con la conseguenza di poter disporre di una documentazione probante la presa in carico dei relativi rischi.

In definitiva, secondo il mio punto di vista, non si deve (nessuna Legge nazionale lo impone) elencare nel DVR gli incidenti near miss perché questi eventi, d’incerta definizione, non sono rischi, unici ad avere diritto di albergo in un DVR, ma eventi. È necessario considerare i rischi evidenziati da questi eventi, e non solo da questi, al fine di inserirli nel contesto della pianificazione e programmazione atta a ridurre i livelli di rischiosità presenti nell’unità produttiva.

Si è parlato fino ad ora di deviazione, incidente, infortunio e rischio, ma non si è parlato del ruolo che ha il pericolo. Ricordo che il D.Lgs 81/08 definisce “pericolo” <>.
È una definizione corretta ma di non sicura e di completa valenza, troppo ampia, per coloro che devono operare in termini di prevenzione. Perché non esiste sostanza, agente fisico, fenomeno, modo di operare, situazione che non ha nel suo seno l’essenza di un pericolo. Riporto un esempio, che mi viene spesso criticato (giustamente, ma questa vuole essere una provocazione): l’acqua, vista come bevanda, sostanza naturale tra le più diffuse e necessaria alla vita dell’uomo, può considerarsi un agente patogeno perché se bevuta in grandissima quantità provoca dei danni al corpo umano. Oltre una certa quantità diventa rischiosa anche se non viene bevuta (annegamento). È la regola della quantità che vale per qualsiasi sostanza, più o meno nociva o tossica o più o meno innocua. Il concetto di pericolo va, dunque, preso con la dovuta cautela ed attenzione ed anche buon senso.
Credo che sia fuori discussione che l’esistenza di un pericolo non comporti necessariamente un rischio per le persone. L’esempio al limite riportato ne è una dimostrazione. Ma ce ne sono altri “di scuola”. Per esempio, un deposito di benzina, non presidiato e sito al centro del deserto. Finché nessuna persona si avvicina ed entra nel deposito, non esiste rischio di infortuni.
Ma in un’unità produttiva, dove operano diversi lavoratori, è difficile, molto difficile, che un pericolo non generi un rischio. Nella pratica ove c’è un pericolo effettivo, c’è un rischio più o meno elevato. Deve esserci l’accortezza di valutare con buon senso e concretezza la rischiosità che un pericolo può produrre. Ritorniamo quindi alla centralità della valutazione del rischio da eseguire e registrare nel DVR.

In conclusione torno a sottolineare che i near miss sono degli incidenti, e come tali devono essere trattati; che nel DVR vanno elencati tutti i rischi emersi dall’analisi dei rischi presenti nell’unità produttiva e dall’esame degli eventi accaduti, infortuni ed incidenti; che è necessario affrontare, eliminare, o per lo meno, ridurre i rischi dando la precedenza a quelli di maggiore livello, indipendentemente se la loro evidenza è scaturita da un esame degli infortuni, incidenti semplici, incidenti near miss, situazioni pericolose o comportamenti pericolosi.

Giuseppe Spada
Membro della Commissione Sicurezza dell’UNI e coordinatore di un suo GdL

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[1] Ricordo a coloro che non l’hanno ben presente che l’azione proattiva è quella che mira ad eliminare alla fonte ogni pericolo; cosa possibile ma molto difficile e spesso molto costosa in un’unità produttiva in piena attività. È per questi motivi che l’azione proattiva trova la sua massima efficacia in fase di ristrutturazione ed innovazione tecnologica delle macchine, degli impianti e delle attrezzature o meglio ancora in fase iniziale di costruzione del sito produttivo

 

Fonti: Puntosicuro.it