L’assunzione di una posizione di garanzia non comporta una automatica responsabilità del datore di lavoro per un evento infortunistico se non viene accertato che il rischio concretizzatosi sia ricollegato ad una normativa che si presume violata.
Non sempre il datore di lavoro è responsabile dell’infortunio accaduto a una persona nella propria azienda. E’ quello che emerge dalla lettura di questa sentenza della Corte di Cassazione. L’assunzione infatti di una posizione di garanzia, ha sostenuto la suprema Corte, non comporta una automatica responsabilità del datore di lavoro se non è stato accertato e sufficientemente provato che il rischio concretizzatosi nell’evento infortunistico sia ricollegabile ad una disposizione normativa che si assume che sia stata violata. Questo è quanto ribadito dalla suprema Corte che ha annullata e rinviata alla Corte territoriale di provenienza la sentenza di condanna del gestore di una autorimessa presso la quale un meccanico in pensione, avuta la disponibilità del gestore stesso, stava provvedendo a estrarre da un autobus in disuso, tenuto in deposito sull’area esterna, un pezzo di ricambio richiestogli da un suo vecchio cliente per la manutenzione di un altro mezzo.
Era accaduto che il meccanico, dopo avere alzato con un sollevatore idraulico uno degli autobus ed estratto la ruota dal mozzo, aveva sistemato in prossimità del sollevatore un supporto di sicurezza allorquando, per l’inidoneità dello stesso e per la mancanza di un sistema frenante del mezzo, lo stesso si è ribaltato provocando l’abbassamento del bus e lo schiacciamento del meccanico. Il gestore dell’autorimessa che aveva autorizzato l’infortunato ad operare sul piazzale esterno era stato ritenuto responsabile dell’accaduto in qualità di datore di lavoro di fatto e in applicazione del principio di effettività, ai sensi dell’art. 299 del D. Lgs. n. 81/2008, ma la suprema Corte ha annullata la sentenza perché non era stato ben individuata la regola cautelare violata.
Il principio in base al quale viene individuata la responsabilità colposa per reati omissivi impropri, ha sostenuto la suprema Corte, presuppone non solo la titolarità di una posizione di garanzia ma anche la violazione di una o più regole cautelari che a quella si coordinano. La titolarità di una posizione di garanzia, infatti, non comporta, in presenza del verificarsi dell’evento, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante, imponendo il principio di colpevolezza la verifica in concreto sia della sussistenza della violazione, da parte del garante, di una regola cautelare (generica o specifica), sia della prevedibilità ed evitabilità dell’evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire (cosiddetta concretizzazione del rischio) e sia anche della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e l’evento dannoso.
Il fatto, l’iter giudiziario, il ricorso e le motivazioni.
La Corte di Appello ha parzialmente riformato, riducendo la pena a sei mesi di reclusione, la sentenza di condanna emessa dal Tribunale nei confronti del gestore di una autorimessa, imputato del reato di cui all’art. 589, comma 2, del codice penale perché, nella veste di titolare di una posizione dì garanzia di fatto, aveva cagionato la morte di un meccanico in pensione, per negligenza, imprudenza, imperizia e violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, segnatamente l’art. 2087 cod. civ. e per aver omesso di mettere a disposizione attrezzature idonee e adeguate al lavoro da svolgere per , un meccanico, al fine di prelevare dei pezzi da alcuni veicoli destinati alla rottamazione e tenuti in deposito presso il piazzale di pertinenza dell’autorimessa, dopo avere installato sotto la parte esterna del mozzo di una delle ruote posteriori di un automezzo ivi parcheggiato, un sollevatore idraulico e successivamente un supporto di sicurezza al fine di mantenere il mezzo sollevato da terra, a causa del cedimento dello stelo di tale attrezzatura era rimasto schiacciato da un assale del veicolo mentre era posizionato sotto la scocca.
L’imputato ha proposto ricorso per cassazione e ha censurata la sentenza impugnata contestando la correttezza della decisione laddove era stato ritenuto sussistente a suo carico una posizione di garanzia desunta, ai sensi dell’art. 299 del D. Lgs. n. 81/2008, nella veste del soggetto che aveva autorizzato il meccanico ad operare sul mezzo, nella veste di custode degli automezzi ai sensi dell’art. 2051 cod. civ., nella veste di proprietario dell’area e titolare di un potere di controllo finalizzato alla verifica dello stato di conservazione e di sicurezza del luogo al fine della sicurezza degli impianti, beni e attrezzature e nella veste anche di titolare della ditta ai sensi dell’art. 71 D. Lgs. n. 81/2008.
Lo stesso ha sostenuto, inoltre, che l’aver indicato in maniera non univoca la fonte normativa della posizione di garanzia, con conseguente impossibilità di individuare precisamente la norma cautelare violata, avesse concretizzato un vizio di motivazione e ha ritenuto, altresì, contraddittoria la sentenza nella parte in cui non era stato individuato il comportamento alternativo lecito da cui poter far scaturire il rimprovero di cui all’art. 40, comma 2, del codice penale. Ha censurato inoltre la contraddizione insita nel fatto che la Corte ha ritenuto che la vittima avesse accettato consapevolmente, nonostante la sua esperienza lavorativa, il rischio di operare sul mezzo collocato in spazi angusti e ridotti, privo di adeguato sistema frenante e instabile oltre che in assenza di idonei strumenti e attrezzature di lavoro, senza però desumerne che tale consapevole accettazione del rischio fosse interruttiva del nesso di causa tra la sua condotta e l’evento mortale.
Le decisioni in diritto della Corte di Cassazione.
La Corte di Cassazione ha ritenute inconsistenti le censure avanzate dal ricorrente e attinenti la valutazione della prove dichiarative. Secondo la stessa, infatti, la Corte territoriale aveva ritenuto che l’azione della vittima non fosse stata estemporanea né imprevedibile, che l’imputato inoltre rivestisse una posizione di garanzia e che fosse a perfetta conoscenza di quanto il meccanico intendesse fare nell’officina. La Corte, in particolare, aveva confermato il giudizio espresso dal Tribunale circa l’esistenza della prova che l’imputato avesse autorizzato il meccanico a recuperare i pezzi di ricambio dei mezzi presenti nell’area di sua proprietà, cosicché si dovesse ritenere che fosse a conoscenza dell’operazione svolta dalla vittima il giorno dell’incidente. Né era stata ritenuta inverosimile la scelta della vittima di utilizzare anche i propri strumenti di lavoro, essendo egli un meccanico esperto che disponeva di propri attrezzi e anche perché, come accertato in giudizio, i sollevatori presenti nel deposito erano inidonei in quanto alimentati da manichette ad aria compressa distanti dal punto in cui era parcheggiato l’automezzo.
Con riferimento alla censura avanzata dal ricorrente in merito al fatto che nella sentenza impugnata la sua posizione di garanzia non era stata univocamente desunta ma era stata derivata da più fonti normative, la suprema Corte ha condiviso tale assunto. La Corte territoriale, ha evidenziato la Corte di Cassazione, dopo aver premesso che il soggetto beneficiario della tutela antinfortunistica è anche il terzo estraneo all’organizzazione del lavoro, aveva sottolineato che l’imputato era il legale rappresentante della impresa individuale di cui la sede ove era avvenuto l’infortunio costituiva una unità, e lo aveva ritenuto, in quanto tale, obbligato a garantire la sicurezza del luogo per tutti i soggetti che vi si trovassero ad operare, ivi comprese le persone estranee all’ambito imprenditoriale. La suprema Corte ha quindi sottolineato l ‘irrilevanza della circostanza che l’imputato non fosse datore di lavoro né committente, attribuendogli l’esercizio dei tipici poteri previsti dall’art. 299 del D. Lgs. n. 81/2008 per avere autorizzato il meccanico a entrare nell’area di sua proprietà e ad operarvi con strumenti inadeguati.
Con riferimento poi alla questione posta dal ricorrente e relativa allo stabilire quale fosse stata la regola cautelare alla cui violazione fosse stato ascrivibile l’omicidio colposo a lui imputato, la Corte di Cassazione ha ritenuto fondato il rilievo difensivo secondo il quale la pluralità di fonti della posizione di garanzia elencate dal giudice di merito non consentisse di comprendere in base a quale percorso logico fosse stata individuata la regola cautelare violata, non essendo stato possibile verificare la correttezza del ragionamento seguito.
In molte pronunce della Corte di legittimità, ha precisato inoltre la Sez. IV, è rinvenibile il principio per il quale la responsabilità colposa per reati omissivi impropri presuppone non solo la titolarità di una posizione di garanzia ma anche la violazione di una o più regole cautelari che a quella si coordinano. E’ stato affermato più volte che «la titolarità di una posizione di garanzia non comporta, in presenza del verificarsi dell’evento, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante, imponendo il principio di colpevolezza la verifica in concreto sia della sussistenza della violazione – da parte del garante – di una regola cautelare (generica o specifica), sia della prevedibilità ed evitabilità dell’evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire (cosiddetta concretizzazione del rischio), sia della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e l’evento dannoso» La Corte di Cassazione ha ulteriormente chiarito che “la posizione di garanzia non è concetto da solo sufficiente a definire quale comportamento si sarebbe dovuto porre in essere; l’indagine va estesa alle pertinenti regole comportamentali, che si impongono nel caso concreto per la loro riconosciuta efficacia cautelare”.
La sentenza impugnata, ha osservato la suprema Corte, ha affrontato anche il tema dell’ambito soggettivo entro il quale si muove la posizione di garanzia del datore di lavoro per eventi infortunistici che si siano avverati nell’ambiente di lavoro e sembrerebbe sposare l’impostazione secondo la quale l’infortunio in esame fosse da inscrivere nel rischio lavorativo. Nella stessa è stata posta, in altre parole, la questione di quali fossero le persone della cui integrità psico-fisica il datore di lavoro sia garante in quanto destinatari della normativa antinfortunistica ai sensi dell’art. l del D. Lgs. n. 81/2008. Vale la pena ricordare, ha così proseguito la Sezione IV, che una prima risposta alla domanda se i creditori di sicurezza siano individuabili attraverso una più o meno estensiva interpretazione della definizione di «lavoratore» ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. a) del D. Lgs. n. 81/2008 vada ricercata nel percorso seguito sul tema sia dal legislatore che dalla giurisprudenza. Se è, infatti, vero che la qualifica di lavoratore, creditore della sicurezza sul luogo di lavoro, nella disposizione dettata dall’art. 2 del D. Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, era imperniata sull’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, è però anche vero che la giurisprudenza di legittimità aveva già evidenziato nella vigenza del D. Lgs. n. 626/94(citando in merito la sentenza n. 34995 del 17/09/2007 Sezione feriale penale, pubblicata e commentata dallo scrivente nell’articolo “ Responsabilità in materia di sicurezza sul lavoro in un rapporto di collaborazione”) che il testo dell’art. 2 modificato nel 1996 aveva posto l’accento, ai fini dell’individuazione della figura del datore di lavoro, non tanto sulla titolarità del rapporto di lavoro, quanto sulla responsabilità dell’impresa, sull’esistenza di poteri decisionali, facendo sostanzialmente leva sul parallelismo fra la titolarità di poteri di organizzazione e gestione e il dovere di predisporre le necessarie misure di sicurezza.
Tale ordine concettuale, ha così proseguito la Sezione IV, è stato poi accentuato dal venir meno, nella definizione di «lavoratore» presente nell’art. 2, comma 1, lett. a) del D. Lgs. n. 81/2008, di ogni riferimento al rapporto di subordinazione; la normativa in tema di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro è stata, conseguentemente, in più occasioni ritenuta operante in relazione a tutte le forme di lavoro, anche nelle ipotesi in cui non sussistesse un formale rapporto di lavoro (citando in merito la sentenza n. 17581 del 07/05/2010 Sez. IV, pubblicata e commentata dallo scrivente nell’articolo “ E’ datore di lavoro il padre del figlio occasionale collaboratore”), fino ad ampliare l’ambito di esplicazione della posizione di garanzia a favore di terzi che frequentino le strutture aziendali.
Se il presupposto del ragionamento è questo, ha ancora sostenuto la suprema Corte, l’iter decisionale dovrebbe però anche affrontare il tema dall’identificazione del creditore di sicurezza in rapporto alla regola cautelare che si assume violata. Vi sono, infatti, alcune disposizioni antinfortunistiche che sono poste a presidio della sicurezza nell’ambiente di lavoro, ma presuppongono necessariamente l’esistenza di un rapporto di lavoro, come ad esempio le disposizioni concernenti l’informazione e la formazione dei lavoratori (artt. 36-37 del D. Lgs.. n. 81/2008); in simili ipotesi, l’accertamento della qualificazione della persona offesa quale lavoratore in senso stretto, sia pure in difetto di un formale contratto di assunzione, diventa imprescindibile.
La sentenza impugnata, secondo la Corte di Cassazione, letta alla luce dei princìpi sopra espressi, è risultata incorrere in una manifesta illogicità allorquando dapprima ha confermato che all’imputato doveva essere attribuita la qualità di «datore di lavoro di fatto» in relazione all’obbligo di garantire la sicurezza dell’area in cui si è svolto l’infortunio e poi ha collegato l’esercizio dei tipici poteri di fatto previsti dall’art. 299 D. Lgs. n. 81/2008 all’autorizzazione allo stesso concessa a entrare nell’area di sua proprietà e a operarvi con strumenti inadeguati; quindi, richiamando l’art. 2051 cod. civ., ha fondata la posizione di garanzia dell’imputato su una norma del tutto estranea alla materia antinfortunistica, affermando che egli aveva l’obbligo di garantire la sicurezza del luogo di cui era proprietario; pervenendo, infine, ad ascrivergli la violazione della specifica norma cautelare violata nell’art. 71 del D. Lgs. n. 81/2008, che non attiene alla conformazione del luogo di lavoro ma all’utilizzo di attrezzatura inidonea.
Tali sono le ragioni per le quali, ha così concluso la suprema Corte, la sentenza, non consentendo la motivazione di verificare la correttezza logico-giuridica del ragionamento seguito, va annullata con rinvio per un nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di Appello di provenienza provvedendo anche alla regolamentazione delle spese tra le parti.
Gerardo Porreca
Fonti: Olympus.uniurb.it, Puntosicuro.it