Il RSPP può essere considerato responsabile del verificarsi di un infortunio, anche in concorso col datore di lavoro, ogni volta che esso sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare.
La figura del responsabile del servizio di prevenzione e protezione è ancora una volta al centro delle sentenze della Corte di Cassazione emanate in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Nei confronti di tale figura, nata circa trenta anni fa con l’entrata in vigore del D. Lgs. n 626/1994 e inizialmente ritenuta esente da qualsiasi responsabilità penale per non avere la stessa poteri decisionali e di spesa ma solo competenze consulenziali, la giurisprudenza, specie dopo l’emanazione del D. Lgs. n. 195/2003 con il quale sono stati fissati i suoi requisiti professionali, ha assunto una posizione ormai consolidata ritenendo che lo stesso possa essere considerato responsabile del verificarsi di un infortunio, anche in concorso col datore di lavoro, ogni qual volta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere che alla segnalazione facesse seguito l’adozione, da parte del datore di lavoro, delle iniziative idonee a neutralizzare tale situazione.
È quello che la Corte suprema ha ribadito anche in questa circostanza nel rigettare il ricorso presentato dal datore di lavoro e dal responsabile del servizio di prevenzione e protezione di una azienda condannati per l’infortunio mortale di un lavoratore avvenuto a seguito della caduta di una piattaforma sulla quale stava operando dovuta alla rottura delle catene che consentivano il suo sollevamento. Agli imputati, essendo stato accertato che l’accaduto si era verificato per una carenza di manutenzione periodica dell’attrezzatura, era stato contestato di avere omesso di disporre, nelle rispettive qualità, le visite trimestrali di controllo sulle funi e catene previste dall’art. 71 del D. Lgs. n. 81/2008 e di non avere tenuto conto, ai fini della prevedibilità e della evitabilità dell’accaduto, che un analogo infortunio si era già verificato nella stessa azienda due anni prima dell’evento di cui al procedimento penale.
Il fatto e l’iter giudiziario
La Corte di Appello ha riformata la sentenza emessa dal Tribunale limitatamente alla concessione agli imputati del beneficio della non menzione della condanna di cui all’art. 175 cod. pen. e confermata nel resto. Con la sentenza di primo grado erano stati condannati il legale rappresentante e il responsabile del servizio di prevenzione e protezione di una azienda ritenuti responsabili del reato di cui all’art. 590, commi 1 e 3, cod. pen. in danno di un lavoratore dipendente infortunatosi presso lo stabilimento dell’azienda stessa. Secondo la ricostruzione fornita dai giudici di merito, la società aveva ricevuto in appalto da una azienda il compito di provvedere alla registrazione e al tamponamento delle porte di chiusura di alcuni forni. Per svolgere questo lavoro (che richiedeva di portarsi fino a sette metri di altezza rispetto alla passerella dell’impianto) la ditta appaltatrice si avvaleva di alcune piattaforme di lavoro elevabili. Queste piattaforme consentivano la presenza in quota di un solo lavoratore che operava all’interno di un cestello munito di cinture di sicurezza e che era coadiuvato dal basso da un collega.
Il giorno dell’accaduto il lavoratore infortunato si trovava su una di tali piattaforme a circa tre metri di altezza e stava procedendo alla registrazione e al tamponamento della porta di chiusura di un forno mentre sulla passerella sottostante si trovava il suo caposquadra che lo coadiuvava. All’inizio del turno, alle sette del mattino il caposquadra aveva eseguito una «checklist visiva» delle varie piattaforme in uso verificando la tensione delle funi, delle catene di stilo, delle carrucole delle catene, del serraggio delle viti e monitorato il livello dell’olio idraulico nel serbatoio e il livello delle batterie. Il lavoratore infortunato stava invece applicando del collante con un pennello e non aveva portato sulla piattaforma altra attrezzatura che quella necessaria a tal fine allorquando improvvisamente, le catene che consentivano lo spostamento verticale della piattaforma si sono spezzate determinandone il brusco abbassamento. Il lavoratore, poiché faceva uso delle cinture di sicurezza, non era stato sbalzato fuori, ma, a causa del contraccolpo dovuto alla caduta della piattaforma, aveva riportato la frattura di entrambe le gambe con conseguente malattia che aveva avuto una durata complessiva di 202 giorni.
Secondo l’ipotesi accusatoria, gli imputati, nelle rispettive qualità sopra indicate, sarebbero stati ritenuti responsabili dell’infortunio per aver omesso di disporre le «visite trimestrali di controllo su funi e catene» e non aver «tenuto conto di tale specifico obbligo di legge previsto dall’art. 71 comma 3 del D. Lgs. 9 aprile 2008 n. 81, anche ai fini della predisposizione del piano di lavoro e di sicurezza. La sentenza di appello aveva escluso che nel caso di specie potesse trovare applicazione l’art. 71 comma 3 dello stesso decreto legislativo con riferimento alla mancata colposa adozione delle cautele imposte dall’allegato VI n. 3.1.2. perché questa norma ha ad oggetto le attrezzature da lavoro deputate al sollevamento dei carichi. La stessa aveva ritenuto tuttavia che il richiamo all’art. 71 comma 3 del D. Lgs n. 81/2008 avesse valenza più generale e aveva sottolineato che in ragione di quanto previsto dall’allegato VI punto 1, la norma impone comunque l’adozione di tutte le cautele necessarie a eliminare o almeno a ridurre i rischi connessi alle attrezzature da lavoro. Conseguentemente, pertanto, aveva ritenuto che gli imputati dovessero essere ritenuti responsabili del reato loro ascritto per aver consentito l’impiego della piattaforma senza che fosse stata adeguatamente monitorata.
Il ricorso per cassazione e le motivazioni.
Entrambi gli imputati hanno proposto ricorso contro la sentenza della Corte di Appello con un atto unico atto articolato in tre motivi. Col primo motivo i ricorrenti hanno lamentato violazione di legge e vizi di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza di una condotta colposa rilevante ai sensi dell’art. 590 cod. pen. La difesa ha osservato che la Corte territoriale aveva ritenuto la responsabilità degli imputati per colpa generica ancorché fosse emerso nel dibattimento che la piattaforma era oggetto di puntuale monitoraggio e manutenzione e fosse stata provata solo l’omissione di visite trimestrali di controllo su funi e catene che la Corte di Appello aveva riconosciuto non essere dovute.
La difesa ha sottolineato inoltre che la piattaforma non era stata destinata ad usi impropri in quanto potevano utilizzarla solo lavoratori in possesso di specifico attestato di formazione. Non era inoltre vietato il sovraccarico, era previsto un check visivo da parte del caposquadra all’inizio di ogni turno di lavoro e era previsto che fossero rispettate le istruzioni di utilizzo previste dal fabbricante. Ha evidenziato altresì la difesa che la piattaforma era dotata di attestazione di conformità alla direttiva CE di riferimento e che la stessa aveva positivamente superato il collaudo da parte dei tecnici INAIL, sicché nessun addebito per colpa, neppure per generica negligenza, imprudenza o imperizia poteva essere formulato a carico degli imputati.
Quanto alle cause del sinistro, il difensore dei ricorrenti ha osservato che, secondo la Corte territoriale, le catene delle piattaforme avrebbero dovuto essere oliate con particolare frequenza, sia per la polverosità dell’ambiente che per l’uso intensivo, e che il costruttore invece non aveva previsto alcuna indicazione in tal senso. Ha rilevato, inoltre che, secondo i tecnici della prevenzione incaricati delle indagini, la piattaforma non era stata sovraccaricata e che la Corte di Appello aveva individuata la causa della rottura delle catene in un difetto di manutenzione senza che tale circostanza fosse stata accertata, in primo luogo perché non era stata eseguita una perizia sulle cause dell’incidente e in secondo luogo, perché non si era tenuto conto delle testimonianze a discarico, dalle quali era emerso che il controllo tecnico delle piattaforme avveniva con cadenza almeno mensile.
Con specifico riferimento poi alla posizione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione la difesa ha sottolineato che lo stesso in tale veste aveva il compito di fornire supporto tecnico al datore di lavoro, ma non aveva compiti gestionali né la sentenza impugnata aveva indicato se il tecnico fosse stato inadempiente ai propri obblighi di consulenza e se tale ipotizzata inadempienza fosse stata causa dell’infortunio.
Con un secondo motivo, i ricorrenti hanno lamentano vizi di motivazione e violazione di legge riguardo alla decisione adottata dal giudice di primo grado, e confermata dal giudice di appello, di non disporre una perizia volta a verificare le cause della rottura delle catene che venivano utilizzate per lo spostamento verticale della piattaforma e le ragioni per le quali non era dotata di un sistema di sicurezza idoneo ad evitare che la stessa potesse precipitare in caso di tale rottura. I giudici di merito avevano ritenuto tale attività istruttoria non indispensabile alla decisione: da un lato perché, pur in assenza del sistema di blocco, la piattaforma era stata ritenuta conforme alla normativa, munita del marchio “CE” e collaudata; dall’altro, perché si era ritenuto che la mancata esecuzione da circa un anno di interventi di manutenzione documentati avesse impedito di rilevare l’usura delle catene. Secondo il difensore invece la circostanza che la manutenzione non fosse regolarmente eseguita era stata smentita dalle deposizioni testimoniali alla luce delle quali le piattaforme erano sottoposte a verifiche periodiche e, in ogni caso, a controllo visivo eseguito dal caposquadra all’inizio di ogni turno di lavoro.
Con un terzo motivo i ricorrenti si sono lamentati del trattamento sanzionatorio sostenendo che la scelta di applicare la pena della reclusione anziché quella della multa non sarebbe stata adeguatamente motivata.
Le decisioni in diritto della Corte di Cassazione.
I motivi del ricorso, secondo la Corte di Cassazione, non hanno superato il vaglio di ammissibilità. La perizia richiesta dalla difesa, infatti, era stata ritenuta dalla Corte territoriale non «assolutamente necessaria» alla luce degli accertamenti compiuti dai tecnici della prevenzione che avevano svolto le indagini e che avevano preso atto che, pur in assenza di un sistema di blocco, la piattaforma era stata dotata di marcatura “CE” e regolarmente collaudata ai fini della messa in opera. La rottura delle catene, essendo stato escluso un sovraccarico della piattaforma, non poteva quindi che essere dipesa dall’usura cui le stesse erano state sottoposte ragion per cui i giudici avevano concentrata la propria attenzione sulla manutenzione del macchinario.
La sentenza impugnata, ha precisato la Sezione IV, aveva escluso che la responsabilità a titolo di colpa potesse essere fondata sulla violazione dell’art. 71 comma 3 del D. Lgs. n. 81/2008 contestata nel capo di imputazione e ritenuta sussistente dal Tribunale con riferimento alla mancata colposa adozione delle cautele imposte dall’allegato VI n. 3.1.2.. La Corte territoriale infatti, accogliendo un motivo di appello, aveva ritenuto che il punto 3 dell’allegato VI facesse esclusivo riferimento alle «attrezzature di lavoro deputate al sollevamento dei carichi, tra le quali non possono essere ricomprese quelle utilizzate per il sollevamento delle persone. La stessa aveva però sottolineato che l’allegato VI (richiamato dall’art. 71, comma 3, del D. Lgs. n. 81/2008) comunque impone l’adozione di tutte le cautele necessarie a eliminare o ridurre i rischi connessi all’uso delle attrezzature da lavoro e che era stato comunque imprudente consentire l’impiego della piattaforma senza che la stessa fosse stata adeguatamente monitorata.
I giudici avevano anche evidenziato che le catene della piattaforma precipitata erano state controllate in officina un considerevole numero di mesi prima del fatto e che inoltre il continuativo utilizzo della stessa e le condizioni di lavoro connotate dalla abbondante presenza di polvere avevano esposto gli ingranaggi a maggior attrito in mancanza di reiterata oliatura, e quindi a un rischio di rottura superiore. Benché poi sulle piattaforme utilizzate dall’azienda era stata compiuta una generalizzata e cadenzata attività di manutenzione, secondo le indicazioni fornite da alcuni testimoni a discarico, nessuno era stato in grado comunque di riferire tale attività manutentiva in termini specifici e temporalmente dettagliati.
La Corte territoriale aveva quindi sostenuto in conclusione che se la piattaforma fosse stata sottoposta a regolari controlli di manutenzione l’evento infortunistico non si sarebbe verificato, che lo stesso, in assenza di regolari controlli, fosse prevedibile ed evitabile e che in proposito meno di due anni prima dell’accaduto si era verificato un incidente identico determinato dalla rottura delle catene di un’altra piattaforma.
Quanto poi alla posizione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, ha sottolineato la Corte suprema, la sentenza impugnata e quella di primo grado avevano ritenuto che egli non avesse adempiuto puntualmente al proprio ruolo non avendo raccomandato al datore di lavoro verifiche periodiche sull’integrità delle catene, non avendo vigilato perché tali verifiche fossero compiute e non avendo predisposto un piano di lavoro e di sicurezza contenente previsioni in tal senso. Tali conclusioni del resto, ha sostenuto la Sezione IV, sono conformi ai principi di diritto che regolano la materia secondo i quali “il responsabile del servizio di prevenzione e protezione può essere considerato responsabile del verificarsi di un infortunio, anche in concorso col datore di lavoro, ogni qual volta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere che alla segnalazione faccia seguito l’adozione, da parte del datore di lavoro, delle iniziative idonee a neutralizzare tale situazione” e ha citato come precedente in tal senso quanto indicato nella sentenza n 1834 del 15 gennaio 2010, pubblicata e commentata dallo scrivente nell’articolo “ Il rapporto fra responsabilità del RSPP e requisiti professionali”.
Con riferimento, infine, al terzo motivo riguardante il trattamento sanzionatorio, la Corte di Cassazione lo ha ritenuto inammissibile essendo stato lo stesso proposto per la prima volta nell’atto di ricorso e non avendolo fatto nell’impugnare la sentenza di primo grado allorquando gli appellanti non avevano censurato l’entità della pena inflitta ma solo la mancata concessione del beneficio della non menzione, un motivo di appello che tra l’altro era stato accolto.
All’inammissibilità dei ricorsi è conseguita la condanna dei ricorrenti da parte della Corte di Cassazione al pagamento delle spese processuali e, rilevata la mancanza di elementi per ritenere che i ricorrenti stessi non versassero in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento a carico di ciascuno di essi della somma di 3.000 euro in favore della Cassa delle Ammende oltre alla rifusione in solido delle spese di rappresentanza e difesa sostenute dalla parte civile che ha liquidate in complessivi 3.000.
Fonti: Olympus.uniurb.it, Puntosicuro.it