Il RSPP, pur svolgendo in azienda un ruolo di consulenza, ha l’obbligo giuridico di adempiere diligentemente l’incarico affidatogli individuando i rischi connessi all’attività lavorativa e fornendo le opportune indicazioni tecniche per risolverli.
E’ ormai indiscutibile, nella giurisprudenza di legittimità l’orientamento che attribuisce alla figura del RSPP uno specifico ruolo di garante nella materia prevenzionistica, ha così dichiarato la Corte di Cassazione in questa sentenza emanata a seguito di un ricorso presentato dal responsabile del sevizio di prevenzione e protezione di una azienda condannato nei due primi gradi di giudizio perché ritenuto responsabile, in cooperazione colposa con altri soggetti, della morte di un lavoratore e delle lesioni subite da un altro lavoratore precipitati da oltre 9 metri nella zona sottostante da una passerella, in seguito al venir meno di un piano di calpestio provvisorio formato da lamiere precarie e pericolanti non fissate stabilmente sul proprio telaio.
In tema di infortuni sul lavoro, ha infatti aggiunto la suprema Corte, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, pur svolgendo all’interno della struttura aziendale un ruolo non gestionale ma di consulenza, ha l’obbligo giuridico di adempiere diligentemente l’incarico affidatogli e di collaborare con il datore di lavoro, individuando i rischi connessi all’attività lavorativa e fornendo le opportune indicazioni tecniche per risolverli, con la conseguenza che, in relazione a tale suo compito, può essere chiamato a rispondere, quale garante, degli eventi che si verifichino per effetto della violazione dei suoi doveri. E’ un indirizzo questo già evidenziato in precedenti altre sentenze della stessa Corte fra le quali viene citata esplicitamente la sentenza della IV sezione penale n. 11708 del 21/12/20, pubblicata e commentata dallo scrivente nell’articolo “ Sulla responsabilità del RSPP per infortunio da errato DVR”.
Il fatto, il ricorso per cassazione e le motivazioni
La Corte di Appello ha confermata la responsabilità del RSPP di un’azienda in ordine al reato di cui agli artt. 113 e 589, commi 1, 2, 4, cod. pen., per avere, in cooperazione colposa con altri soggetti, cagionato la morte di un lavoratore dipendente della ditta presso la quale svolgeva la propria attività e lesioni a un altro lavoratore della stessa ditta i quali, impegnati nella risoluzione di un problema al binario di scorrimento ubicato all’interno dell’area di un cantiere, erano precipitati da oltre 9 metri nella zona sottostante in seguito al venir meno del piano di calpestio provvisorio formato da lamiere precarie e pericolanti non fissate stabilmente sul proprio telaio. Il tutto nell’ambito di lavori affidati a una ditta appaltatrice per il rifacimento della copertura e del refrattario di piedritti in uno dei reparti di un siderurgico.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore del RSPP lamentandosi innanzitutto perché vi era stata una erronea valutazione del ruolo del suo assistito. La definizione di RSPP di cui all’art. 2 del D. Lgs. n. 81/2008, ha evidenziato il difensore, prevede che tale figura risponda del suo operato al datore di lavoro, il quale è il soggetto giuridico che deve adempiere agli obblighi prevenzionali. Una profonda differenza separa infatti il ruolo manageriale del RSPP da quello tecnico-specialistico del tradizionale “responsabile della sicurezza”. Il ruolo del RSPP rimane comunque un ruolo tecnico di staff, di natura consultiva e propositiva, e lo stesso non è titolare di nessuna posizione di garanzia rispetto all’osservanza della normativa antinfortunistica.
Il RSPP, secondo il difensore, aveva valutato e preventivato l’esistenza dei rischi potenziali per i lavoratori e i soggetti terzi che interagivano con i servizi offerti dall’impresa, redigendo il relativo documento e aveva redatto correttamente il POS nel quale era stato chiaramente evidenziato il rischio di caduta dall’alto di materiale e degli operai.
Come seconda motivazione il ricorrente ha sostenuto che il RSPP aveva regolarmente impartite le nozioni tecniche attraverso le riunioni relative alla formazione e informazione di tutto il personale interessato alla manutenzione, in modo che emergessero tutti i rischi presenti durante le fasi delle lavorazioni.
Le decisioni in diritto della Corte di Cassazione
Il ricorso è stato ritenuto inammissibile dalla Corte di Cassazione in quanto generico e aspecifico, posto che le censure non si confrontavano adeguatamente con le specifiche argomentazioni delle conformi sentenze di merito, che avevano chiarito come l’incidente fosse stato conseguenza di una serie di omissioni e di errato inquadramento dei lavori affidati alla ditta appaltatrice.
Il primo motivo di ricorso, inoltre, secondo la suprema Corte, è risultato manifestamente infondato e reiterativo di questioni sulle quali la Corte di Appello aveva già risposto correttamente in diritto, essendo ormai indiscutibile, nella giurisprudenza di legittimità, l’orientamento che attribuisce alla figura del RSPP uno specifico ruolo di garante nella materia prevenzionistica. In tema di infortuni sul lavoro infatti “il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, pur svolgendo all’interno della struttura aziendale un ruolo non gestionale ma di consulenza, ha l’obbligo giuridico di adempiere diligentemente l’incarico affidatogli e di collaborare con il datore di lavoro, individuando i rischi connessi all’attività lavorativa e fornendo le opportune indicazioni tecniche per risolverli, con la conseguenza che, in relazione a tale suo compito, può essere chiamato a rispondere, quale garante, degli eventi che si verifichino per effetto della violazione dei suoi doveri”.
Nel caso in esame i giudici di merito, ha precisato la Sezione IV, avevano insindacabilmente accertato che il prevenuto, nella sua qualità di RSPP, aveva sottoscritto un piano di sicurezza non rispettoso dei contenuti minimi previsti dall’art. 96, comma 1, lett. g), del D. Lgs. n. 81/2008 e, in ogni caso, carente e generico, privo di indicazioni in ordine alla procedura da seguire per la realizzazione del piano di calpestio. Era stato appurato, inoltre, che la segnaletica utilizzata nel cantiere era inadeguata, perché non consentiva la percezione dei rischi reali cui si andava incontro accedendo allo stesso; i lavoratori inoltre non erano stati resi edotti della estrema pericolosità di quel piano e del concreto rischio di precipitazione. La responsabilità del RSPP, nella sostanza, era stata affermata sulla base di una inadeguata valutazione dei rischi ed in considerazione della omessa individuazione delle misure per la sicurezza dello specifico ambiente di lavoro, con particolare riguardo a quella parte del cantiere in cui si era verificato l’infortunio, rivelatasi oltremodo pericolosa.
Era stato correttamente osservato inoltre che sull’imputato incombeva il dovere di informare il datore di lavoro del rischio esistente e di interagire con lo stesso per l’ideazione e costruzione di una struttura idonea (da verificare e collaudare prima del suo utilizzo), e per la predisposizione di un’adeguata segnaletica di sicurezza, che consentisse agli operatori di percepire i rischi reali cui si andava incontro accedendo al cantiere. Si è trattato quindi ha dedotto la suprema Corte, di una ponderata, congrua e logica valutazione di merito e come tale non sindacabile in sede di legittimità.
In merito al secondo motivo il ricorrente si era limitato ad affermare genericamente la mancata assunzione di quelle prove in base alle quali era apparsa evidente l’esclusione della sua responsabilità. Per il resto, ha quindi evidenziato la suprema Corte, la censura aveva sviluppato considerazioni sul contenuto del POS generiche e in fatto, assumendo che il RSPP avrebbe redatto il POS diligentemente e correttamente, individuando adeguatamente i rischi connessi alle lavorazioni. In tal modo, tuttavia, ha osservato la suprema Corte si è continuato a pretendere di ottenere dalla stessa una diversa ricostruzione dei fatti (peraltro sulla base di generiche allegazioni), approccio notoriamente non consentito nella sede di legittimità, investendo profili di valutazione della prova e di ricostruzione del fatto riservati alla cognizione del giudice di merito, il quale aveva fornito al riguardo una motivazione corretta in diritto ed immune da vizi logici.
La Corte di Cassazione, in conclusione, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al pagamento della sanzione pecuniaria come indicato in dispositivo.
Fonti: Olympus.uniurb.it, Puntosicuro.it