Può essere utile ricordare le esperienze negative in sede di formazione? Come sviluppare nei lavoratori esposti la sensibilità alla gravità e alla probabilità degli infortuni? A cura di Alessandro Mazzeranghi.

Un amico, che non è più con noi, tanti anni orsono mi criticava aspramente per il mio utilizzo di esempi negativi (infortuni ecc.) in ambito di formazione sulla sicurezza sul lavoro. E in linea di principio sono d’accordo: l’esempio negativo tende a far ritirare l’ascoltatore nel suo mondo compromettendone l’ascolto.

Ci sono tantissimi specialisti che sanno spiegare meglio di me questo concetto; eppure, a distanza di 20 anni, io resto convinto solo in parte.

Mi spiego: se io devo convincere qualcuno a guardarsi da un rischio a cui oggettivamente è esposto, credo francamente che la sostanza si possa esprimere solo tramite esempi pratici; ciò che è permesso e ciò che è vietato devono trovare una giustificazione concreta altrimenti si finisce, spesso, per trasmettere una teoria che viene condivisa sul momento ma non si “installa” nella memoria. Quindi creare una distinzione fra il giusto e lo sbagliato, fra le situazioni sicure e quelle seriamente pericolose è importante per dare un metro empirico di discernimento a chi ascolta.

E quindi mi permetto, da tecnico operativo, che ha vissuto fin troppi anni in reparti estremamente pericolosi, che i punti chiave da trasmettere tramite la formazione volta a prevenire gli infortuni sono due:

  • La conoscenza concreta degli argomenti specifici di cui si discute (COMPETENZA).
  • La capacità di valutare i rischi associati ad una specifica situazione legata ai temi in discussione (CAPACITÀ).

È evidente che in una realtà tecnicamente complessa le regole imposte sono utili ma purtroppo non esaustive. È quindi il singolo che, sulla base delle conoscenze acquisite, deve applicare una competenza che gli consenta di stabilire da solo quali siano i comportamenti sicuri.

Come evitare che questo risulti respingente per chi ascolta, se siamo costretti a “insegnare a fare” una sorta di valutazione dei rischi “sul momento” e senza il tempo di ricorrere all’aiuto di soggetti più esperti?

Il misero stratagemma che provo ad utilizzare è quello di guidare i discenti su un albero delle scelte. Presumendo di aver già fornito le basi di conoscenza per effettuare l’esercizio possiamo seguire questo banale percorso:

  1. Descrivere un contesto operativo preciso e attinente al tema in discussione sul quale dobbiamo tenerci pronti a fornire tutti gli ulteriori dettagli possibili come se la persona che ci ascolta fosse in quella situazione e si stesse guardando intorno per capire meglio; ovviamente le risposte che possiamo dare riguardano solo ciò che la persona potrebbe effettivamente osservare con i suoi occhi se si trovasse in quella situazione: le domande riguardanti l’esistenza di una valutazione dei rischi specifica piuttosto che di istruzioni operative che descrivono quella situazione evidentemente qualcosa che non può essere acquisita sul momento da un lavoratore e quindi ha poco significato rispetto alla sua reazione di fronte a quella situazione che abbiamo descritto.
  2. Domandare quindi ai presenti quale sarebbe il loro comportamento se si trovassero nella situazione descritta; ovviamente le risposte possibili devono essere almeno due perché qui stiamo cercando di capire se, partendo da una certa situazione, le persone riescono a scegliere un comportamento sicuro o al contrario, non avvedendosi del rischio, operano nel modo che presumibilmente è il più naturale possibile se appunto non si tiene conto del rischio. Sarebbe bello fare un esercizio di questo genere sottoponendo al testo una persona per volta, naturalmente senza che gli altri ascoltino, per poi mettere a confronto i risultati e discuterli; purtroppo se la classe di discenti è anche minimamente numerosa questo non è possibile per ragioni di tempo e quindi gli ultimi a rispondere saranno profondamente influenzati dalle risposte date in precedenza e non rappresenteranno assolutamente un campione statisticamente significativo. Tant’è che io suggerirei di interrompere, dopo 4-5 persone e comunque dopo aver avuto un ventaglio di risposte sufficientemente vario e ampio, l’attività di restituzione, o risposta che dir si voglia, per dar seguito all’esercitazione perché è vero che se la prima risposta è giusta e mette in sicurezza la persona l’esercitazione lì si ferma, ma se invece la prima risposta è sbagliata e crea una situazione di maggior pericolo per la persona potrebbe comunque esistere una via di fuga dal pericolo successiva tale da recuperare in qualche maniera la situazione di sicurezza. Quindi un’esercitazione di questo tipo avrà i rami sicuri che si interrompono, mentre quelli insicuri potrebbero proseguire a livelli di scelta inferiori sino ad avere un albero delle scelte praticamente completo in cui ci sarà solo una sequenza o al massimo un paio di sequenze che portano all’evento dannoso.
  3. Solo a questo punto risulterà poco fastidiosa la descrizione delle conseguenze per l’ipotetico lavoratore che avesse fatto tutte le scelte sbagliate, e qui avere un esempio concreto di ciò che può succedere, cioè che è successo a qualcuno di cui siamo a conoscenza, è importante perché la valutazione del rischio, come dirò nel prossimo paragrafo, non è solo una mera moltiplicazione fra gravità e probabilità ma è qualcosa di più complesso che entra molto nella sfera personale ed emotiva di ogni persona e quindi non può essere ricondotta ad una semplice formula che rappresenterebbe al massimo la mia personale sensibilità. Deve piuttosto essere lasciata con un certo grado di libertà all’individuo soggetto a rischio e, al pari, al suo datore di lavoro che ha tutto il diritto di esprimere la sua opinione essendo poi lui che si va a confrontare con gli articoli 589 e 590 del codice penale.

La valutazione dei rischi “sul momento”

Bella pretesa vero? Che una persona che è impegnata nel lavoro riesca a concentrare la sua attenzione su una situazione di rischio non prevista (almeno nei dettagli) e, dunque, rispetto alla quale non è stato informato e formato nello specifico?

D’altra parte, vi domando: oggi, quale altra via possiamo seguire per combattere quella parte di infortuni residuali dovuti alla “sfortunata combinazione di eventi” che nessuno avrebbe potuto prevedere?

Voglio spiegarmi meglio, questa volta dal mio punto di vista, ovvero quello di chi effettua la valutazione dei rischi cercando di prevedere tutte le fattispecie di potenziale pericolo possibili: se io riconosco un potenziale pericolo, allora valuto il rischio e cerco di trovare tutte le soluzioni tecniche o comportamentali adeguate a limitarlo al massimo grado; le seconde, ovviamente, le comunico e “insegno” a tutte le persone esposte che quindi, in teoria, avrebbero tutte le indicazioni per non commettere errori irrecuperabili. In caso contrario, se non vedo il pericolo, non faccio nulla e lascio il lavoratore completamente solo ed esposto, e la sua unica difesa è il suo proprio modo di percepire la realtà e di elaborare contromisure efficaci.

A questo punto è importante una domanda: nella nostra abitudine di valutatori dei rischi “professionisti” ragioniamo automaticamente facendo riferimento a una qualunque forma di PxD (Probabilità dell’evento x gravità del Danno), per poi confrontare il risultato con dei livelli di accettabilità. Nell’attribuire i possibili valori alle due variabili applichiamo, già a priori, le correzioni che riteniamo più opportune per differenziare i pesi (ovviamente secondo un sistema che dipende dalla nostra personale sensibilità). Fare un ragionamento del genere ad un lavoratore che normalmente si occupa di cose completamente diverse è difficile.

Secondo la mia esperienza dovrebbero essere usati due fattori sempre legati alla probabilità e alla gravità, ma declinati in modo assolutamente diverso, quantomeno per la probabilità.

La probabilità dovrebbe essere divisa in due livelli molto molto elementari:

  • l’evento è assolutamente impossibile;
  • l’evento, se non altro sotto certe condizioni, è possibile.

Una separazione di questo tipo potrebbe aiutare chiunque e capire se la gravità di cui vi parleremo fra poco sia una gravità di cui tenere conto o di cui è inutile, assolutamente inutile tenere conto.

E allora andremo a dividere la gravità fra dei valori direttamente attratti dal codice penale nonchè comprensibili a qualunque persona:

  • Danni lievi o guaribili: danni che non lasciano all’infortunato o al malato nessun tipo di conseguenza, né fisica né psicologica, per i quali il malato o l’infortunato avrà solo un periodo limitato di inabilità parziale.
  • Danni gravi: danni che lasciano al malato o all’infortunato piccole inabilità permanenti che prima non aveva oppure che comportano un periodo di guarigione dall’evento negativo pari o superiore ai 40 giorni di assenza dal lavoro; talvolta accade che danni permanenti come l’amputazione di una falange possono avere tempi di rientro al lavoro inferiori ai 40 giorni: questo non dovrebbe farli annoverare fra i danni lievi.
  • Danni gravissimi: Dani che comportano l’amputazione di un arto piuttosto che la perdita di un senso piuttosto che altre questioni che chiaramente alterano la vita di una persona in modo radicale e talvolta rendendolo inabile al rientro al lavoro che quindi inserendola in un ambito sociale del tutto diverso.
  • Danni mortali sui quali ovviamente non c’è nulla da dire.

Come vedete guardando le definizioni che ho appena dato sopra, la distinzione fra la probabilità è minima mentre la distinzione fra i vari livelli di gravità è piuttosto dettagliata; anche se non si sceglie di seguire pedissequamente o quasi il codice di procedura penale per quanto riguarda il tipo di danno subito dalla persona offesa, è evidente che esistono diversi livelli che possono essere pensati a priori senza una grande competenza tecnica come possibili conseguenze di un evento che possiamo definire sfortunato: se fossi sfortunato potrei anche restare senza il braccio destro. Questa affermazione dovrebbe essere in grado di farla quasi chiunque: il termine “essere sfortunato” vuol dire che una cosa è oggettivamente possibile ma è estremamente improbabile, ma se le conseguenze di questo evento sono così gravi come l’amputazione di un braccio, chi sono io per prendermi il rischio di perdere un braccio per fare qualcosa che alla fine non è altro che un’attività lavorativa? Non sto salvando una persona, non sto evitando un attentato, mi limito ad evitare che un processo lavorativo non vada nel modo corretto; e perché non dovrei accettare che vada in modo non corretto quando l’alternativa è rischiare il mio braccio? Direi che anche il mio datore di lavoro dovrebbe insegnarmi a non prendermi certi rischi qualora le conseguenze possano essere così drammatiche e l’utile così modesto.

Quindi il mio consiglio è: per prima cosa sviluppare in tutte le persone esposte la sensibilità alla gravità e alla “possibilità” dando più “scalatura” alla prima e lasciando la seconda su un livello SI/NO. Poi, arrivati a questo, è ovvio che si può procedere, specie nei confronti dei preposti e dei dirigenti, che devono aiutare i lavoratori a decidere quando i medesimi lavoratori sono in difficoltà.

Fonti: Puntosicuro.it