Nel giudizio di Cassazione sono precluse la rilettura degli elementi di fatto posti alla base della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione dei fatti rispetto a quelli adottati dai giudici di merito.
Spesso la Corte di Cassazione dichiara inammissibili i ricorsi presentati da soggetti che, rivestendo posizioni di garanzia in materia di salute e sicurezza sul lavoro, sono stati condannati dai giudici di merito perché ritenuti responsabili per infortuni accaduti a lavoratori e quindi condannati al pagamento a favore della Cassa delle ammende di una somma nella misura decisa dalla stessa Corte. La inammissibilità è in genere dichiarata perché alla suprema Corte è stato richiesto un riesame dei fatti e delle dinamiche degli eventi infortunistici, finalizzato a una ricostruzione diversa da quella fatta dai giudici di merito ritenuta dai ricorrenti più plausibile e più favorevole alle posizioni della difesa.
In tali casi la suprema Corte ricorda ogni volta sistematicamente che, in tema di giudizio di cassazione, sono precluse al giudice di legittimità sia la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata che l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito. E’ inammissibile inoltre per genericità il ricorso per cassazione fondato su motivi che si risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla corte di merito, dovendosi gli stessi considerare non specifici ma soltanto apparenti, in quanto omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso.
Il fatto sottoposto all’esame della suprema Corte, in questa circostanza, ha riguardato l’infortunio di un lavoratore caduto a seguito del cedimento di una copertura risultata inidonea a sostenere il peso del lavoratore stesso in violazione dell’art. 148 del D. Lgs. n. 81/2008. Il ricorso è stato motivato dal datore di lavoro perché i giudici dei due primi gradi di giudizio non avevano preso in considerazione il fatto che l’infortunato, contrariamente a quanto sostenuto da un teste, al momento dell’accaduto non stava lavorando perché non era dipendente dell’impresa ma si era recato nel cantiere per incontrarlo.
La suprema Corte ha dichiarata la inammissibilità del ricorso presentato dall’imputato evidenziando che i giudici, così come del resto emerso chiaramente dalla lettura delle sentenze di merito, avevano raccolto elementi, derivanti anche da un confronto delle dichiarazioni rese dal teste e dall’infortunato, che li avevano portati a dare più credito alla versione fornita dall’infortunato stesso rispetto a quella data del testimone.
Il fatto, le sentenze di condanna, il ricorso per cassazione e le motivazioni
La Corte di Appello ha confermato la sentenza con la quale il rappresentante legale di una società e datore di lavoro era stato ritenuto dal Tribunale responsabile del reato di cui all’art. 590, commi 1, 2 e 3 cod. pen., per avere cagionato, con colpa consistita in negligenza, imprudenza ed imperizia e nella violazione del disposto dell’art. 148 del D. Lgs. n. 81/2008, lesioni personali gravi a un lavoratore, consistite in politrauma da precipitazione con frattura a scoppio della vertebra Ll, frattura della branca ischio pubica sinistra, multiple fratture dei processi traversi e spinosi vertebrali, con una prognosi di sessanta giorni.
Avverso la sentenza della Corte di Appello l’imputato ha presentato ricorso, a mezzo del suo difensore, alla Corte di Cassazione alla quale ha chiesto l’annullamento della sentenza stessa adducendo alcune motivazioni. Lo stesso ha infatti lamentato un travisamento della prova sostenendo che la sentenza impugnata aveva fondata la sua responsabilità sulle sole dichiarazioni della parte offesa, tralasciando completamente il verbale, acquisito in giudizio, delle sommarie informazioni rese da un teste nell’immediatezza del fatto, il quale aveva espressamente riferito che l’infortunato, suo amico, non lavorava per la società e che quel giorno si era recato in cantiere solo per incontrarlo. Tale dichiarazione, secondo il ricorrente. non era stata presa in considerazione dai giudici di merito, ciò compromettendo la tenuta logica del ragionamento su cui era stata basata la condanna.
Il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, da parte sua, ha chiesto, con requisitoria scritta, il rigetto del ricorso.
Le decisioni in diritto della Corte di Cassazione.
Il ricorso è stato ritenuto inammissibile da parte della Corte di Cassazione. Le censure formulate nel ricorso, ha sottolineato la stessa, con cui era stata lamentata un’omessa considerazione delle prove a discarico hanno appalesato una lettura solo parziale del tessuto argomentativo delle sentenze di merito dalla quale emergono con chiarezza le circostanze in forza delle quali era stato ritenuto che la parte offesa fosse dipendente non regolarizzato dell’impresa della società. Come sottolineato bene dal primo giudice, infatti, ha sostenuto la suprema Corte, l’infortunato si era recato in cantiere con gli abiti da lavoro ed indossava un casco dell’azienda e non era la prima volta che lavoratori in nero venivano ingaggiati nel cantiere, tanto è vero che il responsabile per la sicurezza, riscontrandone la presenza, lo aveva comunicato al datore di lavoro, rilevando la grave violazione della sicurezza in cantiere. La Corte di Appello, invece, aveva escluso ogni dubbio sulla veridicità delle dichiarazioni della persona offesa, osservando che se fosse stato vero il racconto del teste, e cioè se effettivamente l’infortunato si fosse recato in cantiere per fargli visita, lo stesso non sarebbe salito ad una simile altezza.
Il quadro delineato dalle sentenze di merito, quindi, ha chiarito ancora la suprema Corte, era del tutto coerente e non ha presentato i vizi lamentati, anche perché la Corte territoriale aveva posto a confronto le dichiarazioni della persona offesa con quelle del teste dando conto delle ragioni per cui aveva ritenuto credibili le prime e non le seconde.
Le doglianze dedotte, quindi, ha così concluso la Sez. IV, hanno finito con il coincidere con la richiesta di una nuova valutazione del compendio probatorio, preclusa in sede di legittimità. In tema di giudizio di cassazione, infatti, “sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito”.
La semplice lettura della sentenza, inoltre, ha evidenziato ancora la Corte di Cassazione, consente d’altro canto di constatare che la censura proposta nel ricorso altro non era che la ripetizione di quella già oggetto del precedente gravame. La giurisprudenza di legittimità, nondimeno, ha ricordato in definitiva la Sezione IV, ha già chiarito in plurime occasioni come sia inammissibile per genericità “il ricorso per cassazione fondato su motivi che si risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla corte di merito, dovendosi gli stessi considerare non specifici ma soltanto apparenti, in quanto omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso”.
All’inammissibilità del ricorso è conseguita quindi la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di 3000 euro in favore della cassa delle ammende.
Fonti olympus.uniurb.it, Puntosicuro.it