In tema di infortuni sul lavoro non può essere ascritta al datore di lavoro la responsabilità di un evento lesivo o letale per culpa in vigilando se non si è certi che fosse a conoscenza di prassi incaute dalle quali sia scaturito l’evento stesso.

In tema di infortuni sul lavoro non può essere ascritta al datore di lavoro la responsabilità di un evento lesivo o letale per culpa in vigilando qualora non venga raggiunta la certezza della conoscenza o della conoscibilità, da parte sua, di prassi incaute dalle quali sia scaturito un evento infortunistico. E’ questo l’indirizzo che emerge dalla lettura di questa recente sentenza della IV Sezione penale della Corte di Cassazione che si è già espressa in maniera analoga in precedenti sue decisioni. In presenza di una prassi dei lavoratori elusiva delle prescrizioni volte alla tutela della sicurezza, ha infatti ribadito la suprema Corte, non è ravvisabile la colpa del datore di lavoro, sotto il profilo dell’esigibilità del comportamento dovuto omesso, ove non vi sia prova della sua conoscenza, o della sua colpevole ignoranza di tale prassi.

In questa occasione la Cassazione, alla luce delle suesposte considerazioni, ha annullata con rinvio una sentenza con cui la Corte di Appello aveva condannato il datore di lavoro di un’azienda in virtù della sua posizione di garanzia per un infortunio accaduto a un lavoratore dipendente il quale introdottosi nell’ambito dell’area di un grosso macchinario attraverso un varco realizzato abusivamente e privo del dispositivo di blocco di sicurezza si era infortunato mortalmente perché schiacciato dalle parti della macchina stessa messisi in movimento improvvisamente. La condanna, inflitta al datore di lavoro dalla Corte di Appello per non avere lo stesso vigilato sulla realizzazione del cancelletto abusivo e sulla sua utilizzazione, è stata annullata dalla suprema Corte perché dagli accertamenti era emerso che il datore di lavoro non fosse a conoscenza della modifica effettuata sul macchinario.

Il fatto, l’iter giudiziario e il ricorso per cassazione.

La Corte di Appello ha riformato la sentenza con la quale il Tribunale aveva assolto il legale rappresentante di una società dal reato di omicidio colposo con violazione di norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro nonché la società stessa dall’illecito amministrativo ex art. 25-septies comma 2, del D. Lgs. n. 231/2001, contestati come commessi in danno di un lavoratore dipendente deceduto a seguito di un infortunio sul lavoro. Il datore di lavoro era stato condannato alla pena di otto mesi di reclusione, con pena sospesa, e la società condannata al pagamento della sanzione amministrativa di 20.000 euro. L’infortunio mortale, secondo l’assunto accusatorio recepito nella sentenza d’appello, si era verificato all’interno dello stabilimento della società mentre il dipendente lavorava al quadro comandi di un macchinario per la cesoiatura – punzonatura di fogli metallici allorquando per un inceppamento del meccanismo della macchina lo stesso si era introdotto nell’area pericolosa attraverso un cancelletto realizzato abusivamente anziché attraverso l’apposito varco protetto munito di fotocellule che avrebbero bloccato il funzionamento della macchina. Quindi mentre lo stesso tentava di sbloccare la macchina rimuovendo il materiale che l’aveva inceppata, il carrello di alimentazione ripartiva e lo travolgeva cagionandone la morte.

Secondo l’imputazione, formulata non solo a carico del datore di lavoro ma anche nei confronti di altri soggetti facenti parte dell’organigramma della società, l’addebito era quello di aver disposto la realizzazione del cancelletto abusivo da cui il lavoratore era entrato nella zona a rischio del macchinario, laddove, se egli si fosse introdotto in tale area attraverso l’apposito varco munito di fotocellule, il macchinario si sarebbe automaticamente bloccato, consentendo in sicurezza l’operazione di rimozione del materiale che lo aveva inceppato. Alla società era stato addebitato l’illecito amministrativo, correlato al reato attribuito al datore di lavoro, quale soggetto apicale, perché commesso nell’interesse e a vantaggio della stessa mediante l’omissione delle misure di prevenzione previste dalla legge allo scopo di eseguire i lavori in modo più rapido e meno costoso.

Mentre la sentenza di primo grado aveva escluso che fosse stato accertato che il lavoratore aveva avuto accesso all’area pericolosa passando dal cancelletto realizzato abusivamente, la Corte di merito ha ritenuto acclarato che egli fosse entrato proprio da quest’ultimo varco, non facendo così scattare il dispositivo di sicurezza che avrebbe altrimenti bloccato il macchinario. I giudici d’appello avevano ritenuto che fosse da escludere il malfunzionamento del dispositivo di sicurezza, con conseguente certezza dell’accesso del lavoratore all’area pericolosa attraverso il varco abusivo. Dell’accaduto doveva rispondere il legale rappresentante della società nella sua qualità datoriale di garante generale della sicurezza dei lavoratori, avendo egli omesso di vigilare in ordine alla realizzazione del cancelletto e all’utilizzo dello stesso, la cui presenza, aveva osservato la Corte di merito. era ampiamente nota all’interno della fabbrica. Sussisteva, di conseguenza, per la Corte distrettuale, anche l’illecito amministrativo contestato alla società.

Avverso la sentenza della Corte di Appello hanno ricorso per cassazione sia il datore di lavoro che la società. Limitandoci a commentare la posizione dell’imputato quale datore di lavo questi, da parte sua, ha osservato che la sentenza con la quale era stata ribaltata la decisione assolutoria di primo grado aveva imputato a suo carico di non avere esercitato la dovuta vigilanza sul corretto utilizzo del dispositivo di protezione (ossia l’accesso collegato alle fotocellule)e quindi una condotta omissiva – riferita a un profilo di culpa in vigilando – diversa da quella oggetto di contestazione, ed anzi costituente un fatto nuovo. In aggiunta a ciò, ha sottolineato che non era stata fatta alcuna comunicazione né a lui né alla direzione aziendale circa la presenza del cancelletto, il quale peraltro era camuffato dalla presenza di bulloni verniciati e quindi praticamente invisibile.

Come altra motivazione il datore di lavoro si è lamentato della esclusione da qualsiasi responsabilità del responsabile di produzione e del responsabile di stabilimento, coimputati, anche se entrambi erano da tempo venuti a conoscenza della presenza del cancelletto abusivo e non si erano preoccupati di avvisarlo né di impedire l’utilizzo di quel varco pericoloso. Si è lamentato inoltre per il fatto che la Corte di merito aveva ritenuto che il varco era stato realizzato con la finalità di evitare l’interruzione del ciclo produttivo a vantaggio della società laddove i consulenti tecnici avevano attribuito al varco stesso tutt’altra funzione, ossia quella di evitare ai lavoratori un più faticoso trasporto degli utensili.

La decisione in diritto della Corte di Cassazione.

La Corte di Cassazione ha ritenuto fondato sotto più profili il ricorso presentato dal datore di lavoro. La stessa ha innanzitutto ravvisata un’evidente discrasia fra l’oggetto specifico dell’imputazione, che poneva a carico dello stesso l’addebito di avere disposto la realizzazione del cancelletto abusivo, e la condotta criminosa ravvisata dalla Corte di Appello qualificabile come culpa in vigilando per non avere esercitato il dovuto controllo su quanto accadeva all’interno dello stabilimento e, dunque, anche sulla realizzazione del varco da cui sarebbe transitato il lavoratore infortunato. In altre parole, secondo la Sez. IV, a suo carico era stato ravvisato un fatto radicalmente diverso rispetto a quello contestato con conseguente compromissione del diritto di difesa. É di tutta evidenza, ha sottolineato la suprema Corte, che nel corso dell’istruzione dibattimentale non era stato fatto un accertamento sulla conoscenza, da parte dell’imputato, dell’avvenuta realizzazione del varco incriminato. Non era stato, inoltre, accertato nulla in ordine a chi avrebbe disposto o eseguito il varco né che vi fosse all’interno dello stabilimento una prassi illegittima, costituita dall’utilizzo più o meno ricorrente di tale accesso per entrare nell’area pericolosa ove il lavoratore era rimasto ucciso.

La suprema Corte ha quindi richiamato l’indirizzo giurisprudenziale in base al quale “non può essere ascritta al datore di lavoro la responsabilità di un evento lesivo o letale per culpa in vigilando qualora non venga raggiunta la certezza della conoscenza o della conoscibilità, da parte sua, di prassi incaute, neppure sul piano inferenziale (ossia sulla base di una finalizzazione di tali prassi a una maggiore produttività), dalle quali sia scaturito l’evento”. Del resto, ha aggiunto la Sez. IV, la giurisprudenza di legittimità si è già espressa in modo analogo quando ha sostenuto che “in tema di infortuni sul lavoro, in presenza di una prassi dei lavoratori elusiva delle prescrizioni volte alla tutela della sicurezza, non è ravvisabile la colpa del datore di lavoro, sotto il profilo dell’esigibilità del comportamento dovuto omesso, ove non vi sia prova della sua conoscenza, o della sua colpevole ignoranza, di tale prassi”. Nel caso in esame, in altre parole. non era stata provata l’esistenza di una prassi incauta né che l’imputato ne fosse a conoscenza.

Per le suindicate considerazioni la Corte di Cassazione ha in conclusione annullata la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di provenienza.

Corte di Cassazione Penale Sezione IV – Sentenza n. 36778 del 21 dicembre 2020 (u. p. 3 dicembre 2020) – Pres. Piccialli – Est. Pavich – P.M. Pinelli – Ric. G.C.. – In tema di infortuni sul lavoro non può essere ascritta al datore di lavoro la responsabilità di un evento lesivo o letale per culpa in vigilando se non si è certi che fosse a conoscenza di prassi incaute dalle quali sia scaturito l’evento stesso

Fonti: Olympus.uniurb.it, Puntosicuro.it