Le norme di cui al D. Lgs. n. 81/2008, che presuppongono l’esistenza di un rapporto di lavoro quali quelle concernenti l’informazione e la formazione dei lavoratori, si applicano anche nel caso della insussistenza di un formale contratto di assunzione.
Le norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro di cui al D. Lgs. 9/4/2008 n. 81 che presuppongono necessariamente l’esistenza di un rapporto di lavoro, quali quelle concernenti l’informazione e la formazione dei lavoratori, si applicano anche nel caso che non sussista un formale contratto di lavoro. Una indicazione questa che viene spesso ribadita nelle sentenze della Corte di Cassazione in quanto riguarda un punto fondamentale delle norme di prevenzione degli infortuni e di tutela della salute dei lavoratori. Si cita in merito fra le ultime la sentenza n. 18396 dell’11 aprile 2017 della III Sezione penale, pubblicata e commentata dallo scrivente nell’articolo “ Sulla definizione di lavoratore alla luce del Testo Unico”, nella quale la stessa Corte ha ben messo in luce la definizione che del lavoratore è stata data dal legislatore con l’art. 2 comma 1 lettera a) del citato D. Lgs. n. 81/2008 secondo il quale il lavoratore è “la persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione”.
Tale definizione nel tempo ha subito una notevole trasformazione ben più ampia di quella derivata dall’applicazione delle precedenti norme di sicurezza sul lavoro di cui al D.P.R. n. 547/1955 il quale faceva riferimento esclusivamente al “lavoratore subordinato”. Ora la stessa invece fa leva sullo svolgimento di una attività lavorativa da questi effettivamente svolta nell’ambito della organizzazione di un datore di lavoro indipendentemente dalla tipologia contrattuale per cui, ai fini dell’applicazione delle norme previste dallo stesso decreto legislativo, quello che conta è sostanzialmente l’oggettivo espletamento di mansioni tipiche dell’impresa (anche eventualmente a titolo di favore) e su richiesta di un imprenditore in un luogo dallo stesso deputato.
Nel caso in esame è ricorso alla Corte suprema il gestore di un esercizio di ristorazione che aveva dato a un lavoratore “a nero” l’incarico di rimuovere un pergolato antistante il suo esercizio il quale si era infortunato durante tali operazioni. Il gestore era stato condannato per il reato di lesioni colpose aggravato dalla violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro per non avere fornito al lavoratore mezzi di protezione adeguati rispetto alla prestazione lavorativa, per non averlo sottoposto a sorveglianza sanitaria e per non averlo formato. La Corte di Cassazione, ritenute logiche e corrette le argomentazioni formulate dai giudici di merito, ha dichiarato inammissibile il ricorso e ha colto l’occasione per ribadire la necessità di tutelare la salute dei lavoratori qualunque sia il loro rapporto di lavoro con colui per il quale prestano la loro attività lavorativa.
Il fatto, le condanne, il ricorso per cassazione e le motivazioni
La Corte di Appello ha confermata la sentenza con la quale il Tribunale ha condannato il gestore di un esercizio di ristorazione, nella sua qualità di datore di lavoro, per il reato di cui all’art. 590 del codice penale ai danni di un lavoratore, reato aggravato dalla violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro e, in particolare dell’art. 18, comma 1, lett. f), del D. Lgs. n. 81 del 2008, per non avere fornito allo stesso, impegnato su sua richiesta in un lavoro in quota, i mezzi di protezione adeguati rispetto alla prestazione lavorativa, dell’art. 18, comma 1, lett. g), dello stesso decreto, per non aver sottoposto il lavoratore a sorveglianza sanitaria e dell’art. 20, comma 2, lett. h) per non averlo formato. In particolare l’imputato, secondo l’accusa, aveva incaricato la persona offesa di eseguire “in nero” la rimozione di un pergolato antistante l’esercizio di ristorazione dallo stesso gestito, fornendogli all’uopo la scala dalla quale il lavoratore era caduto mentre era intento nello svolgimento della mansione assegnatagli.
L’imputato ha proposto ricorso avverso la sentenza della Corte di Appello a mezzo del proprio difensore, formulando delle motivazioni. Lo stesso ha innanzitutto dedotto una erronea applicazione della legge penale e un vizio della motivazione quanto alla sussistenza della sua posizione di datore di lavoro dell’infortunato. Lo stesso Tribunale, ha evidenziato il ricorrente, aveva configurato una sua duplice veste, ritenendolo anche committente dell’opera, pur in difetto dei relativi parametri, atteso che non conosceva lo stato dei luoghi svolgendo altrove la sua attività, che la vittima altresì aveva sempre lavorato nel settore edile e che la rimozione del pergolato costituiva un’operazione semplice. La Corte territoriale, di contro, aveva illogicamente negato il presupposto acclarato dal Tribunale, quello cioè della occasionalità del rapporto creatosi tra lui e l’infortunato.
Come altra motivazione l’imputato, inoltre, ha dedotto una inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità e vizio della motivazione quanto alla omessa valutazione di una memoria difensiva nonché della sentenza del Tribunale del Lavoro con la quale era stata accertata l’insussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra lui e l’infortunato, elemento che avrebbe “scardinato” il costrutto accusatorio.
Le decisioni in diritto della Corte di Cassazione
Il ricorso è stato ritenuto inammissibile dalla Corte di Cassazione. La stessa ha messo in evidenza che la Corte territoriale aveva esaminate le posizioni difensive del ricorrente muovendo dalla questione inerente alla posizione di garanzia dallo stesso ricoperta. A tale fine la Corte di Appello ha ritenuto di rinvenire la soluzione della questione nella definizione di “lavoratore” offerta dall’art. 2 del D. Lgs. n. 81/2008 secondo il quale il lavoratore è la persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato con o senza retribuzione. Il legislatore, ha evidenziato la Sez. IV, ha pertanto ritenuto rilevante, non già la qualifica del soggetto, quanto piuttosto il fatto che costui avesse svolto, su richiesta del “datore di lavoro”, nel luogo da questi indicato e con i mezzi da questi messi a disposizione, mansioni lavorative.
Proprio muovendo da tale premessa, secondo la suprema Corte, i giudici di merito avevano ritenuto provato che la persona offesa aveva svolto attività lavorativa (rimozione del pergolato) su richiesta dell’imputato e che lo stesso aveva assunto la qualifica e la conseguente posizione di garanzia di datore di lavoro, al quale competeva pertanto di verificare i rischi inerenti alla prestazione richiesta, informare il lavoratore e dotarlo di strumenti adeguati e idonei a scongiurare l’avverarsi di rischi connessi a quell’attività. Peraltro, quanto a questi ultimi, si era trattato di un rischio generico di caduta dall’alto, dovendo il lavoro eseguirsi in quota, servendosi il lavoratore di una scala di 4 metri, priva di ancoraggio (la caduta era infatti avvenuta a seguito di un’oscillazione dello strumento, semplicemente appoggiato alla parete).
In replica a una specifica osservazione difensiva, inoltre, ha sottolineato la Sezione IV, la Corte territoriale aveva precisato che la necessità dei presidi omessi non poteva essere esclusa in considerazione del fatto che, al momento della caduta, il lavoratore fosse posizionato a un’altezza inferiore ai mt. 2, dato peraltro neppure accertato e asserito in maniera del tutto apodittica: infatti, le previsioni normative che indicano la necessità dei presidi omessi prendono in considerazione l’intero campo di lavoro sul quale il lavoratore deve muoversi e non le singole posizioni assunte nel corso dell’opera e, nella specie, il lavoro doveva svolgersi sicuramente a quota maggiore di due metri, avendo il pergolato un’altezza non superiore a 3 metri e tale essendo pure l’altezza del sottostante balcone.
La Corte di Appello, secondo la Sezione IV inoltre, aveva chiaramente inquadrato la fonte degli obblighi violati dal ricorrente nella figura del datore di lavoro, muovendo dalla definizione sia di “lavoratore” contenuta nell’art. 2 comma 1 lettera a) del D. Lgs. n. 81/2008 che di “datore di lavoro” contenuta nella lettera b) del comma 1 dello stesso articolo. Sul punto la Corte suprema ha anche richiamato un consolidato orientamento dei giudici di legittimità secondo il quale “in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, le norme di cui al d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, che presuppongono necessariamente l’esistenza di un rapporto di lavoro, come quelle concernenti l’informazione e la formazione dei lavoratori, si applicano anche in caso di insussistenza di un formale contratto di assunzione” per cui ne consegue che “ai fini dell’applicazione delle norme previste nel decreto citato, rileva l’oggettivo espletamento di mansioni tipiche dell’impresa (anche eventualmente a titolo di favore) nel luogo deputato e su richiesta dell’imprenditore, a prescindere dal fatto che il ‘lavoratore’ possa o meno essere titolare di impresa artigiana ovvero lavoratore autonomo” e ha citato in merito la sentenza della Sezione III penale. n. 18396 del 15/3/2017 pubblicata e commentata dallo scrivente, come già detto, nell’articolo “ Sulla definizione di lavoratore alla luce del Testo Unico”.
Orbene, nel caso in esame, ha quindi concluso la Corte di Cassazione, era stato accertato dai giudici di merito che il pergolato, della cui rimozione era stato incaricato l’infortunato, era pertinente a un esercizio di ristorazione gestito dall’imputato, che l’incarico, evidentemente funzionale alla sua attività lavorativa, era stato da costui affidato e che, pertanto, attraverso tale conferimento, egli aveva di fatto assunto la gestione dei rischi relativi al campo di lavoro, collocato in quota, stanti le caratteristiche dell’immobile e del manufatto da rimuovere tanto più che gli strumenti erano stati messi a disposizione dall’imputato stesso e, tra questi, la scala utilizzata dal lavoratore, sprovvista dei più basilari presidi di sicurezza, trattandosi di strumento utilizzato semplicemente appoggiandolo alla parete interessata.
La violazione colposa degli obblighi (di formazione del lavoratore e, ancor prima, di dotazione di presidi di prevenzione adeguati) si è posta quindi in diretta correlazione con il rischio che le norme violate erano intese a scongiurare, poiché, come già precisato, la caduta dall’alto, in qualsiasi fase della lavorazione e in qualsiasi posizione il lavoratore si sia venuto a trovare, costituiva proprio la sua concretizzazione e, anche a voler configurare in capo all’imputato, come sostenuto dalla difesa, la posizione di committente del lavoro, i suoi obblighi, in ogni caso, finirebbero con il sovrapporsi a quelli propri del datore di lavoro. Considerata infine la manifesta infondatezza anche delle altre motivazioni avanzate con il ricorso, lo stesso è stato in definitiva ritenuto inammissibile dalla suprema Corte.
Alla declaratoria di inammissibilità è seguita quindi la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di 3000 euro in favore della Cassa delle ammende nonché alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità in favore della parte civile costituita, ritenute congrue, oltre agli accessori di legge.
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Fonti: Puntosicuro.it, Olympus.uniurb.it